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La musica in Piemonte - 1

 

 

Appunti per una storia - Parte I

  

di Alberto Cesare Ambesi


Non cercheremo di emulare gli studi, intelligenti e puntigliosi, effettuati da prestigiose istituzioni accademiche. Un proposito del genere sarebbe disutile e presuntuoso. Ci prefiggiamo, invece, laddove sia possibile, di abbozzare una storia musicale del Piemonte. Ed anche delle contigue aree transalpine, quando opportuno, dall’Età medievale fino alle soglie dei nostri giorni. Ma, sia chiaro, non tanto con l’aiuto della più specialistica filologia, quanto con l’ausilio di doverose scorrerie in altri regni, umanistici e scientifici, convinti che per comprendere l’antico e il nuovo occorra sempre rifarsi a più di un ramo del sapere. Si potrebbe sostenere, per esempio, che il monodico canto gregoriano è naturalmente consono con il severo interno delle abbazie e chiese romaniche, così come il più tardo e labirintico contrappunto franco-fiammingo bene si raccorda con le cattedrali concepite ed erette nello stile del gotico fiorito. Prova e controprova? Nel primo caso, la luce che si incunea dalle strette finestre entro lo spazio sacro potrebbe dirsi come un’eco, trasposta in “modo minore”, della Parola che era risuonata al Principio; nel secondo, per converso, si direbbe che il Fiat Lux! (il Big Bang?) sia già stato comandato, cosicché le sfaccettate varietà di colore delle grandi vetrate e il proiettarsi di esse sul pavimento, o lungo le pareti ecclesiali, finisce sempre con l’avere più di una somiglianza con l’irradiarsi di galassie e di stelle entro lo spazio-tempo che concorrono a creare.

Ma veniamo al concreto. Al momento in cui nasce la cultura musicale piemontese. Con un respiro subito europeo, si direbbe. Per chi scrive, difatti, non vi è dubbio che l’inizio evocato coincise con i ripetuti soggiorni nel Monferrato (ultima decade del XII secolo) del trovatore provenzale Raimbaut de Vaqueiras (1155?-1205?): uomo e artista che seppe affermarsi, grado a grado, da giullare (musico e poeta di strada) a menestrello (musico e poeta, esecutore di composizioni altrui, di castello in castello) a trovatore e cavaliere. Di lui, dalle testimonianze contemporanee, sappiamo che fu apprezzato autore di diverse composizioni di soggetto per lo più amoroso, su propri testi, in italiano e in francese, in dialetto genovese e in gallego-portoghese, oltre che in guascone e in lingua d’oc, Dettaglio della Sala Baronale del Castella della Manta di Saluzzoovviamente. Si può attribuire alla sua inventiva la definitiva connotazione della estampida vocale Kalenda Maya (“Calende di Maggio”), l’unico suo lavoro di cui sia stata tramandata anche la corrispettiva componente musicale. Tuttavia, con molte incertezze interpretative, per due buone ragioni: primo perché, come si è accennato, si è pressoché certi che egli abbia tornito, per così dire, una melodia già patrimonio dei joglars (giullari) del Monferrato; secondo, poiché la notazione allora in uso si affidava in larga parte a convenzioni mnemoniche, alle consuetudini esecutive sottintese ai diversi soggetti poetici e alle connesse metriche sintattiche, per cui tanto per Kalenda Maya, quanto per ogni altra musica trovadorica, potrà parlarsi di esecuzioni “verosimili”, ma d’incerta fedeltà rispetto alle originarie intenzioni dell’autore medievale. Né la constatazione dovrà stupire più di tanto, visto che, da qualche tempo, gli intenditori amano discutere su come debbano interpretarsi Beethoven e Wagner, nonostante si posseggano le originarie partiture manoscritte, e se è raccomandabile o ammissibile che su un pianoforte gran coda possano e debbano riversarsi le ghirlande di ghiaccio e di fuoco del Clavicembalo ben temperato di Johann Sebastian Bach. Ciascuno risponda come meglio gli aggrada. 

Qui si ha invece l’obbligo di ritornare all’orizzonte dell’Età di Mezzo, per segnalare che, su un repertorio stimato di 2500 composizioni trovadoriche, risultano tramandate fino ai giorni nostri non più di trecento melodie, diverse delle quali adoprate da più autori, con varie modifiche, in quanto ritenute validi modelli di “buone maniere” letterarie e musicali: un trasparente riflesso, o anticipazione, dei comportamenti che era doveroso sviluppare nei confronti sia della Dama, oggetto dell’amor cortese, sia del Signore del quale il Trovatore era vassallo. Non a caso, lo sbocco erotico che il canto trovadorico evocava e invocava rimaneva espressione del tutto sentimentale del Desiderio o – stando ai taluni sottintesi poetici - non giungeva mai alla completa consumazione. Forse è per tale motivo che il trovatore e cavaliere, Raimbaut de Vaqueiras potè amare (riamato?) la bella Beatrice, figlia di Bonifacio I (ca 1150-1207), marchese del Monferrato della stirpe degli Aleramici, sentendosi d’altro canto in dovere di seguire l’avventuroso suo protettore nella “strana” quarta crociata contro Costantinopoli (1204) e nella successiva guerra volta a difendere il neocostituito Regno di Tessalonica (Tessaglia) contro gli invasori Bulgari. Fino ad un punto estremo: non si può infatti escludere che il Trovatore sia caduto al fianco di Bonifacio nel corso della fatale battaglia di Rodope. 

Si è accennato all’intimo, prolungato rapporto di Raimbaut de Vaquerairas con il Marchesato del Monferrato. Ma è anche doveroso rammentare che, appena giunto in Italia, il musico-poeta era stato ospite a Tortona, fra il 1190 e il 1191, dell’illustre famiglia feudale dei Malaspina, ma con personali esiti poco felici, a quanto pare. Diversi anni più tardi, alla corte di Bonifacio I Raimbaut ebbe la possibilità di sfidare ad una tenzone poetica Alberto dei Malaspina, il Poeta (1165-1210), e di sicuro non fu soverchiamente cortese con il contendente. A cominciare dall’accusa di aver rapito, dodici anni prima, una bella e recalcitrante donzella, rivelandosi uomo sleale e di grossolani costumi. Deplorazione espressa con toni sardonici e accompagnata da malevoli rilievi, sempre in eccellente provenzale, a proposito delle scarso coraggio che il rapitore avrebbe più volte dimostrato in altre circostanze. Superfluo aggiungere che il Malaspina seppe ribattere ad ogni imputazione, ora con qualche imbarazzo, ora con toni convincenti. Ma non ci si appiattirà sul “gossip” medievale, in quanto dovere di obiettività impone di osservare che, stando ai dati cronistorici, Alberto, il Poeta non fu del tutto mediocre nell’arte poetica e musicale e fu generoso protettore di diversi trovadori e menestrelli: alla sua corte troveranno ospitalità, per vari periodi tempo, Albertet de Sisteron (1194-1221), intelligente “impaginatore” di dialoghi lirici, e il ghibellino Percivalle Doria (1195-1264), destinato a tragica fine mentre accorreva con proprie truppe a sostegno di re Manfredi (1231/32-1266).

Si è fatto il nome di Albertet de Sisteron. È perciò obbligatorio ricordare che suo privilegiato interlocutore, almeno in un caso, pare sia stato il misterioso trovatore Peire de la Mula di Saint-Gilles (vissuto fra il XII e il XIII secolo) protetto dai marchesi del Carretto, governanti un’area che inglobava il Piemonte meridionale (da Saluzzo all’Astigiano) e il tratto della costa ligure compreso fra Savona e Albenga. 

Se lo spazio consentisse di penetrare entro il regno delle biografie più minute o evanescenti, si potrebbero evocare i nomi dei poeti-cantori Peirol, Dafni d’Alvernha e Gaucel Faidit, a riprova della viva partecipazione del Piemonte tutto, e aree limitrofe, alla civiltà occitana. Ma è precisamente per tale ragione che prima di abbandonare l’Età di Mezzo, si tenterà, la prossima volta, d’illuminarne taluni aspetti con una luce nuova…o quasi.

Non si è forse riconosciuto, da più parti, che l’arte trovadorica non si può rivivere se non riandando a talune sue premesse, anche extraeuropee, e alle sue fondamenta essenziali, filosofiche e teologiche? Dopo, solamente dopo, si potrà riprendere il discorso a proposito della storia della musica in Piemonte e dei suoi protagonisti di nascita o di elezione.





 

 

 

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Hanno collaborato a questo numero:

Nico Ivaldi

Alberto Cesare Ambesi
Alessandra Chiappori
Franco Galvagno
Elena Piacentini
Viviana Vicario
 

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