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La memoria delle cose

 

 

 

Giulio Bevilacqua trasforma i cimeli in installazioni artistiche


intervista di Nico Ivaldi


Pannelli-installazioni che uniscono, alla tecnica antica del collage la sovrapposizione di autentici oggetti d’epoca, medaglie, armi, elmetti, fotografie e altri memorabilia originali, acquistati nei mercatini di tutta Europa. Ecco in che modo Giulio Bevilacqua – libraio di professione ma storico del Novecento per passione – racconta quello che Eric Hobsbawm definì “secolo breve”, il secolo dei nazionalismi, dei movimenti di massa, del terrore, delle grandi utopie, degli stermini organizzati.

Dopo molti anni di lavoro, per la prima volta questi pannelli - che Bevilacqua fino a oggi ha gelosamente custodito tra le mura di casa - sono stati presentati al pubblico torinese, cronologicamente ordinati dalla prima guerra mondiale al dissolvimento dell’Unione Sovietica, in una mostra alla Sartoria Creativa intitolata La memoria delle cose.

La passione per la storia del cinquantacinquenne Giulio Bevilacqua risale ai tempi in cui la madre gli raccontava la sua vita a Roma durante il fascismo e la guerra.

In casa mia ho sempre maneggiato oggetti appartenuti alla mia famiglia e da lì è nata la passione, forse il dovere, di conservarli. Quando arrivai a Torino da Lucca nel ’72 ero colpito dalle decorazioni appuntate al petto dei Cavalieri di Vittorio Veneto. Adesso molte di quelle medaglie si trovano nei mercatini: mi chiedo come possa la gente sbarazzarsi di questo prezioso materiale. E non parliamo delle lettere dal fronte e di foto di nonni o zii in divisa militare, anche queste spesso finite nei bidoni dell’immondizia”.

Le installazioni sono formate da pannelli di 120 x 80 centimetri. La base, il fondo, è di legno verniciato con lo smalto. Su questa base, Bevilacqua ha ricostruito la “sua” storia. 

Accompagnati dalle note di In the mood dell’orchestra di Glenn Miller e di Lili Marleen cantata da Lale Andersen (78 giri originali fatti girare su un grammofono ovviamente d’epoca ma ancora in ottimo stato), l’artista ci guida nel secolo degli orrori.

Si parte dalla prima guerra mondiale. Ci sono un pugnale, un bossolo lavorato della prima guerra mondiale (“uno di quei lavori che i soldati facevano nelle trincee aspettando di andare al massacro”, commenta l’artista), una foto del nonno di Bevilacqua, cartoline di posta militare, una baionetta austriaca recuperata in un mercatino a Vienna. L’effetto è assicurato.

Anche il filo spinato è autentico?

No” sottolinea Bevilacqua. “Ma è il più vecchio e arrugginito che sono riuscito a trovare nei miei vagabondaggi nelle zone industriali dismesse”. Già, perché dove non arriva l’oggettistica sopperiscono i materiali di recupero.

Dove trovi i materiali di recupero che usi per i tuoi lavori? 

Vicino ai cassonetti, nelle zone industriali dismesse a Torino e fuori città, nei cortili dei negozi. Prendo tutto: imballaggi, pezzi di legno, cartone, ferro. Accatasto a casa e poi, in qualche modo, utilizzo”.

Bevilacqua è perfettamente a suo agio con tutti i materiali. Sa come lavorarli e soprattutto sa dove inserirli, come il sacco militare di juta che riveste il pannello sulla Grande Guerra.

Un enorme fascio littorio occupa metà del pannello dedicato al fascismo. Le foto sono d’epoca, mentre altri scatti dello stesso Bevilacqua testimoniano il persistere della memoria storica in Italia, come si può vedere ancora oggi su molti muri delle nostre città; per esempio su quello di una casa di Montà d’Alba c’è ancora stampato il faccione del duce.

Sono personalmente contrario alla cancellazione di scritte e volti, dice l’artista, perché fanno parte della nostra storia, nel bene come nel male, in questo caso soprattutto nel male. Anche se comprendo perfettamente la voglia della gente di distruggere i simboli del fascismo non appena caduto il regime”.

Proseguendo nella visita troviamo due pannelli sulla Resistenza, tra i periodi storici più studiati da Bevilacqua. Il primo è dedicato all’epopea resistenziale, gran parte dell’installazione è attraversata da un testo scritto dallo stesso Bevilacqua con una grafia piccolissima, quasi elementare.

Ho voluto condensare poesie, canti, ballate, brani di romanzi di Pavese, Fenoglio e Calvino, tutti dedicati alla lotta partigiana. È stato un lavoro da certosino, ci ho messo molti giorni a finirlo. La borsa partigiana è autentica, l’ho trovata in una baita abbandonata a Vinadio, è stata la mia cartella per tutto il periodo del liceo. La foto del partigiano stampata su un manifesto era invece la copertina di un disco degli Yo Yo Mundi, realizzata in occasione del concerto notturno al Col del Lys il 25 aprile di qualche anno fa”.

Il secondo pannello della Resistenza è invece consacrato alla commemorazione. Come hai fatto a invecchiare il manifesto dei partigiani che non è dell’epoca?

L’ho grattato con spazzole di ferro, poi l’ho sporcato calpestandolo, e sopra ho scritto “No” con la vernice nera, seguito dalla croce celtica del Fuan; soprattutto negli anni Settanta era frequente che neofascisti imbrattassero manifesti e lapidi partigiane”.

Su questo pannello non potevano mancare i cartellini con i fiori che ogni anno le sezioni dell’Anpi (di cui Bevilacqua è attivista) cambiano su ogni lapide dei caduti. Per ottenere l’effetto usura è sufficiente lasciare per un anno intero i cartellini al sole e alle intemperie. Chiude l’installazione la poesia Lo avrai, camerata Kesselring, un classico di Piero Calamandrei.

Fra tutti i pannelli della mostra quello dedicato alla Shoah possiede un impatto terribile. Il colore dello sfondo, bianco e azzurro, ricorda le casacche dei deportati; vi spiccano la stella gialla di Juden e la parola Shoà pennellata con la vernice rossa su un trasparente azzurro.

L’azzurro è quello dei cieli, impassibili e indifferenti spettatori dell’Olocausto: mi sono ispirato al Canto al popolo ebraico massacrato del poeta ebreo polacco Yitzhak Katzenelson, perito egli stesso a Auschwitz. Il filo spinato rappresenta le linee ferroviarie della Polonia che collegavano i campi di sterminio polacchi. Ho visitato tutti i campi della Polonia, alcuni più di una volta. Vi ho raccolto sassi, pezzi di legno, erba. Perché il filo spinato esce dal pannello? Perché l’antisemitismo non è finito con la Shoah. È terminato un periodo storico ma certe situazioni - come dimostrano la crociata anti-ebraica in Ungheria e il proliferare di gruppi neonazi nei paesi baltici – continuano purtroppo a riproporsi”.

L’incubo del nazismo è rappresentato da un pannello tricolore: bianco, nero e rosso, dominati dalla scritta Heimat, patria.

L’oggettistica di quel periodo è tutta autentica: bandiera nazista, elmetto tedesco del ‘42, maschera antigas, coltello da paracadutista, decorazioni, borchie delle cinture, fregi del berretto, spillette. Il filo spinato racchiude i paesi assoggettati dal nazismo. Ci sono anche foto, che ho acquistato in Ucraina, di prigionieri tedeschi fatti sfilare a Kiev”.

Alla storia del comunismo Bevilacqua ha dedicato quattro pannelli. Due ripercorrono la vita di Lenin, con le immagini dedicate al culto della personalità e in più medaglie, francobolli, spille.

Gran parte del materiale l’ho acquistato in Ucraina. In Russia è molto difficile reperirlo perché è ufficialmente proibito il commercio e l’esportazione di questi prodotti. È tutto venduto sottobanco, a prezzi cari e i falsi non si contano. Io per fortuna li so riconoscere. I russi hanno vissuto la spoliazione totale della loro memoria, nei periodi di difficoltà la gente vendeva qualsiasi cosa mercanteggiabile con i turisti occidentali. Ecco perché oggi non si trova quasi più nulla”.

 Col metallo modellato, Bevilacqua ha realizzato la testa di Lenin che con la mano davanti alla bocca urla: “Partito” (riproducendo il celebre manifesto di Rodchenko, nel quale l’intellettuale e attrice Lilya Brik, già compagna di  Majakovskij,  .

La base di questo pannello è meta rossa e metà nera, il rosso del comunismo mentre il nero rappresenta la negatività, cioè i gulag, la repressione, tutto ciò che di orribile ha sviluppato il mondo comunista, la grande idea finita come sappiamo”. I pannelli sul pianeta rosso sono frutto di moltissime letture a tema e dei tanti viaggi dell’artista, di cui consigliamo la visita del blog (http://giuliobevilacqua.wordpress.com/)

Nell'installazione sulla fine del comunismo gran parte del materiale proviene dai cantieri di Danzica, dove Bevilacqua ha recuperato avanzi delle fusioni, cartelli di metallo, ricordi di Solidarnosc e scarti delle lavorazione del ferro.

Un altro pannello ripercorre il cammino delle rivoluzioni del Novecento, ispirate al comunismo: quella russa, la messicana, il movimento spartachista in Germania e poi la rivoluzione cubana. È un pannello composto in gran parte di immagini di Castro, Mao, Che Guevara, Zapata. 

L’ultimo pannello in mostra è dedicato solo a Mao e alla Cina. È metà rosso e metà nero. Ci sono il libretto rosso originale e manifesti di carta di riso autentici; su questo materiale l’artista ha posizionato in un angolo un pesante giaccone cinese da lavoro. Realistico al punto che un visitatore distratto potrebbe considerarlo un capo d’abbigliamento appoggiato per caso sul pannello.

Bevilacqua va giustamente fiero delle sue opere. Gli domandiamo se abbia in mente qualche altro lavoro?

Sì, vorrei realizzare un pannello sul mondo yiddish scomparso, dalla Polonia all’Ucraina. E un altro sul mondo russo”.

E se fra qualche anno decidessi di raccontare l’Italia degli anni Novanta e del primo decennio del Duemila, cosa metteresti?

Sarebbe un lavoro dedicato in gran parte al berlusconismo, visto che ha caratterizzato vent’anni della nostra storia. Di sicuro metterò la calcolatrice azzurra dell’euro che Berlusconi aveva mandato nelle case degli italiani, poi la madonnina che lo colpì in faccia, e studierei come realizzare il suo profilo ducesco. Sarebbe un pannello con un fondale pieno di donnine nude prese da Playboy e da Drive In, il tutto incorniciato da un vecchio televisore spaccato”.





 

 

 

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Hanno collaborato a questo numero:

Nico Ivaldi

Gabriella Bernardi
Oscar Borgogno
Eleonora Chiais
Lucilla Cremoni
Sofia Vallania

 

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