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Castelmagno

 

 

 

Trionfo, declino e rinascita del formaggio migliore del mondo  


di Oscar Borgogno


Quando domandarono al celebre gastronomo Luigi Veronelli quale fosse il miglior formaggio del mondo, il maestro rispose convinto: “Il Castelmagno”. Del resto sono molti i palati che hanno subito il fascino di questa prelibatezza della valle Grana, nelle Alpi Marittime cuneesi. A cominciare da quello di Carlo Magno, che ad ogni discesa nella penisola italica si narra pretendesse alla sua tavola il celebre formaggio (a cui forse diede il nome). Non da meno erano i marchesi di Saluzzo: come si desume da una sentenza arbitrale del lontano 1277, esigevano che il pagamento dei canoni d'usufrutto dei pascoli montani dell'alta valle fosse corrisposto mediante una regolare fornitura di Castelmagno. 

Evidentemente anche la storia ufficiale ha finito con l'affezionarsi al sapore vigoroso di questo formaggio se proprio la titolarità di alcune sue forme costituì il casus belli della guerra tra Cuneo e Saluzzo. Cinque secoli più tardi un decreto di Vittorio Amedeo II di Savoia gli attribuì definitivamente il titolo di “Re dei formaggi alpini”. 

L'Ottocento fu il secolo d'oro del Castelmagno, che si affermò come elemento immancabile nei menù delle tavole più raffinate di tutta Europa. Poi le guerre novecentesche che travolsero le zone del confine italo-francese (proprio dove si snoda la valle Grana) e il successivo rapido spopolamento montano degli anni '60 ne provocarono l'oblio. 

Una decadenza così acuta che ha rischiato di far perdere per sempre le tradizionali tecniche di produzione, tramandate di padre in figlio. Fortunatamente il peggio è stato evitato grazie alla provvidenziale e ostinata azione del compianto Gianni De Matteis, giornalista e sindaco di Castelmagno, che agli inizi degli anni '80 ne ha permesso il rilancio: suo suo il merito di avergli ottenuto nel 1982, fra i primi formaggi in Italia, il riconoscimento nazionale Doc; nel 1996 è arrivata anche la qualifica europea Dop. 

Questo formaggio può essere prodotto, stagionato e confezionato esclusivamente nel territorio dei comuni di Castelmagno, Pradleves e Monterosso Grana, in provincia di Cuneo. Dagli stessi luoghi deve anche provenire il latte destinato alla trasformazione. 

Il gustoso formaggio corre però ora un rischio opposto: quello di finire vittima della produzione industriale che predilige la quantità alla qualità. Tra i primi ad accorgersene sono stati i fratelli Giorgio e Pier Andrea Amedeo. Entrambi originari della valle Grana, si sono allontanati per esigenze lavorative: il primo è ingegnere e amministratore delegato di Parma Casseforti (la più antica impresa italiana del settore) mentre il secondo vive in Lussemburgo, dove è consigliere per il commercio estero del Granducato. La distanza tuttavia non ha impedito loro di coltivare la passione per il Castelmagno, sollecitata dallo stesso sindaco De Matteis. Hanno così acquistato quattro alpeggi pregiati in valle, 120 ettari di pascoli sulle pendici di quelle montagne, e centinaia di vacche: da qui è nata la società “Terre di Castelmagno”. “Al fine di  preservare e difendere la tradizione produttiva di questo antico e nobile formaggio, spiegano i due fratelli, abbiamo deciso di costruire il centro produttivo e di stagionatura in località Chiappi, la frazione più alta di Castelmagno”. Una scelta decisamente controcorrente oggi, quando la maggior parte dei caseifici si concentra nella bassa valle per motivi di efficienza industriale. 

Da sempre Giorgio Amedeo si è speso per rendere la produzione del formaggio più fedele alle tecniche tradizionali: “Dal 2001 al 2005 ho lavorato per impostare il nuovo disciplinare di produzione del Castelmagno Dop”. Tuttavia, per aumentarne la quantità prodotta, il Consorzio di tutela del Castelmagno (di cui gli Amedeo e altri produttori non fanno parte) ha iniziato ad introdurre varianti al disciplinare stesso allargando la zona in cui è possibile produrlo, al punto che oggi gran parte di quello che si trova nei negozi e sulle bancarelle è realizzato industrialmente nei centri più vicini alla pianura. Da qui la scelta di chiedere e ottenere il permesso per la fondazione di un Presidio Slow Food per il “Castelmagno d'Alpeggio”: questa produzione si distingue dall’altra perché deve avvenire interamente al di sopra dei 1.600 metri; ogni malgaro usa il latte delle proprie mucche; la lavorazione avviene ad ogni munta e la stagionatura minima dev'essere di quattro mesi. 

Il sapore lievemente piccante del Castelmagno d'Alpeggio ha conquistato anche uno degli architetti più famosi al mondo, Daniel Libeskind (l'artefice del nuovo grattacielo di Ground Zero a New York), al punto da convincerlo a disegnare il logo del Presidio. “Queste forme sono eccellenti”, spiega Piero Sardo, presidente della Fondazione per la biodiversità di Slow Food.  “Noi non giudichiamo la qualità delle altre produzioni, ma sappiamo che grazie al Presidio si difende un ambiente montano e una tradizione che rischiano di scomparire”. La produzione cosiddetta “di montagna” prevede invece l’alimentazione a fieno locale (minimo 26%), che purtroppo non è disponibile per tutti. “Dunque ci si affida, prosegue deluso Amedeo, ai controlli blandi. Inoltre dà la possibilità di alimentare il bestiame a mangime (fino al 49%), di lavorare il latte ogni quattro mungiture per cui sicuramente il produttore è obbligato a termizzare quello delle prime due, mentre il disciplinare parla di lavorazione a latte crudo!”. 

Le due differenti varietà sono facilmente identificabili dal colore dell'etichetta: blu nel caso del "Castelmagno di montagna" e verde nel caso del "Castelmagno di Alpeggio". Entrambi sono caratterizzati da una crosta sottile e liscia, di colore giallo-rossastro nelle forme più fresche, che assume una conformazione rugosa e una colorazione brunastra in quelle più stagionate. La pasta, molto friabile, è di colore bianco avorio con venature blu-verdi che si moltiplicano col passare dei mesi, dovute allo sviluppo di speciali muffe, appartenenti al genere pennicillium, che contraddistinguono i cosiddetti formaggi erborinati o a pasta blu. L'erborinatura (dal lombardo erborin, prezzemolo) nel Castelmagno si sviluppa naturalmente con la stagionatura, senza necessità di inoculare muffe specifiche. Le forme prodotte artigianalmente sono circa diecimila l'anno, quelle industriali trentamila. “Temo però che molte di più siano quelle contraffatte, dichiara pessimista il referente di Slow Food, che rovinano il mercato. Perché sono care ma di qualità bassa, e chi le assaggia non comprerà mai più questo formaggio”. 

Il mercato, come altri settori d'eccellenza, non risente affatto della crisi economica “anzi, abbiamo il problema opposto” ammette Amedeo. “È difficile star dietro a tutte le richieste che provengono da Unione Europea, Russia e sempre più frequentemente dal nord America”. Del resto la qualità dei loro prodotti è garantita da un prestigioso medagliere: tre spicchi sul Gambero Rosso dei formaggi Italiani (tra le trenta migliori aziende) e terzo posto al concorso nazionale dell’Alma di Codorno nella categoria “erborinati”. 

Ma la vita del produttore non è delle più semplici, come dimostra l'esperienza di Osvaldo Pessione, 48 anni, una moglie e una figlia. Tutti i giorni, la stessa vita: sveglia alle 4,30 per la prima mungitura al gias (all’aperto); alle 8 la cajà (in occitano, la cagliata); un’ora dopo incomincia a lavorare lou Castelmanh. Dopo un breve intervallo per il pranzo e il pisolino, alle 15,30 inizia la seconda mungitura per la cagliata serale. “Il formaggio migliore è confezionato nel periodo estivo, racconta Pessione,  e per una forma occorre tutto il latte giornaliero di sette vacche”.  



Foto di Lucilla Cremoni


 

 

 

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Hanno collaborato a questo numero:

Nico Ivaldi

Gabriella Bernardi
Oscar Borgogno
Lorenza Castagneri
Andrea Di Salvo
Emanuele Franzoso
Genny Notarianni
Luigi Serrapica
Simone Schiavi


 

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