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Il Piemonte contro i DCA


A Torino il centro pilota per la cura dei disturbi del comportamento alimentare


di Marina Rota


Le vedi correre nei parchi, massacrarsi in palestra per ore; e ti chiedi come riescano anche solo a stare in piedi, queste ragazze dagli occhi immensi, scheletriche, tormentosamente belle, che paiono uscite dai quadri di Schiele, o dalle sculture di Giacometti.

Il loro vanto è rifiutare ogni offerta di cibo; la loro aspirazione uscire da un mondo che disprezzano perché troppo materiale, grossolano, fatto di uomini a tre dimensioni che vivono solo per mangiare, dormire e congiungersi. Un mondo in cui non si riconoscono, un corpo in cui non si identificano, che vedono troppo grasso anche quando pesa trenta chili e puniscono con uno stillicidio che le rende, allo stesso tempo, carnefici e vittime di loro stesse. 

Il Prof. Fassino  nel suo studioL’anoressia e la bulimia  (parente stretta dell’anoressia, nonostante i sintomi opposti di ingestione compulsiva di cibo) interessano ormai circa diecimila persone in Piemonte. “Una vera epidemia sociale” la definisce il professor Secondo Fassino, medico psicoterapeuta, ordinario di Psichiatria all’Università di Torino e direttore del centro pilota regionale per i Disturbi del Comportamento Alimentare (DCA). È il primo centro in Italia per la completezza del percorso di cura; una struttura fortemente voluta dalla Regione Piemonte e dall’Università di Torino, e sostenuta dai finanziamenti della Compagnia di San Paolo.

Il centro pilota, costituitosi di fatto nei primi anni ’90 con la collaborazione fra psichiatri e nutrizionisti, venne riconosciuto nel 1998 dall’Assessorato alla Sanità per assicurare terapie multidisciplinari ai casi di anoressia e bulimia, già in preoccupante aumento nella nostra regione. Come sottolinea il professor Fassino, le varie forme di disturbi alimentari, nei loro comportamenti estremi di rifiuto o di assunzione incontrollata di cibo, sono sempre espressione di problemi psichici i quali, creando ripercussioni somatiche che a loro volta deflagrano nuovamente sulla psiche, operano un terribile corto circuito che conduce ad un deperimento non di rado senza ritorno.

Questo Centro, una realtà esemplare apprezzata a livello nazionale e internazionale anche per una produzione scientifica fra le prime in Europa, assicura la molteplicità di cure integrate (psichiche, nutrizionali, farmacologiche, psicoterapiche) richiesta dalla complessità dei DCA, che creano profonde lacerazioni nel corpo e nell’anima delle pazienti. 

Nei casi più gravi, quando le ragazze presentano un indice di massa corporea (cioè del rapporto peso/altezza) così preoccupante da mettere in pericolo la vita, si cerca di bloccare la caduta del peso ricoverando la paziente in un piccolo reparto a 6 letti: “insufficienti, sottolinea Fassino, a fronte delle richieste che provengono da tutta Italia, creando una lunga lista d’attesa”.

Il Centro Pilota per i CDAFiore all’occhiello del centro pilota è il day hospital terapeutico a 12 letti, un reparto modello delle Molinette, con locali accoglienti, rallegrati dalle creazioni artistiche delle pazienti, in cui vengono erogate cure dalle 8:30 alle 15:30, per la durata di 6-9 mesi: terapie nutrizionali, psicoterapia individuale, familiare e di gruppo, arteterapia. “Il guaio è che, commenta Fassino, gli ottimi risultati conseguiti rischiano di vanificarsi col rientro in famiglia”. È anche prevista, con l’appoggio della Regione Piemonte, l’attivazione di una struttura residenziale, dove la paziente possa vivere alcuni mesi fuori dall’ambiente familiare ed essere curata per dodici ore al giorno. 

Le stesse terapie bio-psico-sociali vengono assicurate a livello ambulatoriale, dove una équipe multidisciplinare ha seguito lo scorso anno più di dodicimla accessi. In ogni caso, spiega il primario, si elabora un progetto di cura rigorosamente ad personam, ritagliato sulla personalità come un sarto fa con un vestito. Questa alleanza terapeutica, che evita l'abbandono della cura, si instaura con un vero e proprio contratto, in cui ogni paziente concorda coi nutrizionisti e gli psichiatri i cosiddetti “patti terapeutici” che le risultano accettabili.

Ma come ci si ammala di anoressia? Come nasce quella volontà ossessiva di modificare il proprio corpo, di costruirne narcisisticamente un altro, invece di abitare serenamente il proprio? I motivi sono psichici, biologici, genetici, e certo, socio-relazionali: “I nuovi modelli sociali, sottolinea Fassino, non possono che far detonare sempre più acutamente certe fragilità”; ma incolpare della malattia le immagini delle pubblicità e delle sfilate di moda impedisce di affrontare il problema dalla sua radice, che è da ricercare sempre nelle famiglie. 

Famiglie carenti di autentica comunicazione, di reciproco riconoscimento. Genitori troppo impegnati per dedicare tempo alle figlie e, rassicurati dall'illusoria certezza che “la qualità è più importante della quantità”, le privano, spiega Fassino, “di una presenza affettiva anche nel suo aspetto frustrante, come quella dei ‘no’ che aiutano a crescere”. Questa assenza rende vulnerabili tanti adolescenti, che alle prime difficoltà cadono nella tossicodipendenza o sviluppano patologie della personalità. Le ragazze anoressiche, al centro di una rete familiare malata, non riescono a costruire un’accettabile immagine di sé: l’angoscia della mancata identificazione la sprofonda nel buio, nell'incertezza fra vivere e scomparire. Le loro labbra restano sigillate di fronte al cibo e a una qualunque parola di spiegazione. 

L’idea della femminilità le nausea, la sola ipotesi di un approccio sessuale le disgusta, con la sua insopportabile associazione alla carne; come mistiche medievali, come filosofe inconsapevoli, vorrebbero annullare ogni traccia di corporeità e raggiungere la leggerezza sublime che Platone riferiva all’anima, invitando a scioglierla dalle catene del corpo affinché potesse, nella sua purezza, contemplare tutto ciò che è puro. Le anoressiche sono inorridite all'idea delle curve femminili che potrebbero acquisire, e simboleggiano accoglienza, accudimento, procreazione. 

Il Prof. Fassino a un convegnoImmature, intelligenti, dotate di straordinaria sensibilità e di una altrettanto straordinaria cocciutaggine che le induce a digiunare anche se tormentate da una fame rabbiosa. “Si sentono eroiche”, dice Fassino. “In un mondo vorace e volgare, loro muoiono di fame, per “uccidere” col loro suicidio cronico coloro da cui si sentono trascurate e incomprese”.

A proposito: mentre la “colpa” dell’anoressia è sempre stata attribuita alle madri, proprio gli studi svolti dal centro pilota hanno individuato maggiori responsabilità nei padri che, in genere vulnerabili e immaturi, non sanno accompagnare le figlie nella loro crescita, delegando la responsabilità alle madri, le quali diventano iperprotettive per sopperire alla loro inadeguatezza.

Suona contraddittorio che ragazze così determinate si rivolgano spontaneamente al centro pilota per essere curate; e infatti vi ricorrono i familiari, che, angosciati dagli impressionanti sintomi finali che sono terribilmente fisici, anche se l’anoressia è mentale, si accorgono tardivamente che la ragazzina non fa i capricci, che in gioco non è l’apppetito, ma la disperata ricerca di un'immagine di sé che non ha avuto dai genitori. Altre volte sono loro stesse a presentarsi al Centro quando, estenuate dalle terribili fatiche che si impongono, cadono in una depressione, una rabbia, uno scoraggiamento intollerabili, causati anche dal sottopeso. 

Occorre allora ristabilire con loro un rapporto di fiducia; creare un’alleanza difficile i primi mesi quando le ragazze, intelligenti e imbroglione, recitano la parte della paziente perfetta, ma ricorrono ad ogni espediente per il terrore di perdere il controllo sul corpo, che equivale per loro a perdere il controllo sull'angoscia. Fanno fatica ad abbandonare il digiuno che, come chiarisce il professore, dopo qualche giorno diventa “fatto farmacologico”, ovvero uno stupefacente, così come l'assunzione incontrollata di cibo senza fame e senza piacere dei bulimici agisce come un ansiolitico o un antidepressivo per scacciare l'angoscia. Il digiuno regala un falso senso di forza e induce a pensare di poter vivere senza mangiare; donando l’ebbrezza della consunzione, di cui l’anoressica non può più fare a meno. 

Finora si è sempre parlato al femminile, ma le statistiche parlano di un aumento del fenomeno dell’anoressia maschile, dal 5% fino all'attuale 15%: una malattia che viene spesso diagnosticata solo ad un avanzato stato di malnutrizione, perché i pazienti, che esprimono la stessa angoscia e presentano le stesse difficoltà nell’identificazione sessuale, si vergognano di dichiarare una malattia “femminile”; e d’altro canto i medici, non aspettandosi un uomo anoressico, associano i suoi sintomi ad altre patologie. 

Le ragazze anoressiche, che sfuggono a ogni rapporto con l’altro sesso, fanno eccezione per i maschi che presentano problemi simili ai loro; d'altronde la loro è una doppia sconfitta perché, proprio in quanto deperite, vengono indicate come modello negativo dalla stessa società in cui, a caro prezzo, hanno cercato una collocazione.

Non è il dimagrimento la posta in gioco, insomma, ma un'identità che verrebbe compromessa dalla pesantezza. In questo senso, al cibo si richiede una funzione che non gli compete, dal corpo si pretende la soluzione dei problemi dell'anima.

D’altronde, non è un mistero che nel nostro tempo il nutrimento non è più semplicemente un atto necessario per l'esistenza, ma è divenuto l’espressione di paure, ansie e disagi; che, come accade a queste diafane, tormentate creature, possono minare l’armonia precaria tra il mondo della follia e quello della ragione che coabitano, spesso inconsapevolmente, in tutti noi.


2011

 

 

 

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intervista di Nico Ivaldi


Hanno collaborato a questo numero:

Nico Ivaldi

Roberta Arias
Gabriella Bernardi
Eleonora Chiais
Michela Damasco
Giulia Dellepiane
Marina Rota

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