Una storia di ordinario eroismo
di Alberto Tessa
Questa è una piccola storia, come piccolo è l’Ollasio, il fiumiciattolo che attraversa il centro di Giaveno, capoluogo dell’alta Val Sangone, situato a circa 30 chilometri a ovest di Torino. Ma come l’Ollasio si getta in un fiume più grande che, a sua volta, si getta nel mare, fino a fondere le proprie gocce con quelle dell’Adriatico, così anche questa piccola storia si getta nel grande oceano della Grande Storia. Sui libri di scuola non la troverete, anche se è incisa nelle menti e nei cuori di quelli che l’hanno vissuta e non la possono dimenticare.
Questa è la storia del ruolo che ebbe, durante la nostra guerra civile, Suor Delfina Pettiti.
Suora cottolenghina originaria dei pressi di Fossano, Caterina Pettiti nacque il 26 maggio 1903 e giunse a Giaveno nel 1929 per lavorare nel piccolo ospedale cittadino con la ferma intenzione di aiutare gli ultimi, i malati, come avrebbe voluto il fondatore della sua congregazione. Per anni, Suor Delfina si dedicò al suo ruolo di infermiera, ma durante la guerra civile e la Resistenza la sua volontà di compiere sino in fondo il proprio dovere si trasformò in eroismo.
Fedeli alla missione di aiutare chiunque si trovasse in difficoltà e avesse bisogno di cure, Suor Delfina e le altre cinque cottolenghine operanti presso l’ospedale di Giaveno decisero che avrebbero aperto le porte a chiunque: gente comune, fascisti e partigiani. A questi ultimi, i “banditi”, come venivano chiamati dagli occupanti tedeschi e dai loro sodali in camicia nera, era proibito fornire aiuto; eppure, in poco meno di venti mesi, dall’8 settembre 1943 al 25 aprile 1945, queste suorine riuscirono a curare, salvando loro la vita nella maggioranza dei casi, decine di partigiani, fra cui Eugenio Fassino, gravemente ferito a una gamba nel ‘44.
“Li tenevano nascosti in quattro rifugi situati nei sotterranei di quella che oggi è l’ala vecchia della struttura” spiega con lucida precisione Giorgetta Viretto Truto, classe 1937, l’“orfanella dell’ospedale” allevata da Suor Delfina e dalle sue consorelle, in una sorta di versione femminile, con lieto fine, di Marcellino Pane e Vino. “I tedeschi non li trovarono mai. Inspiegabilmente. Il Signore deve avere steso la Sua mano a protezione dell’ospedale. Più volte vennero, perquisirono, minacciarono, tentarono di corrompere chiunque operasse all’interno della struttura, ma non trovarono mai nulla”. Nemmeno quella volta in cui una spia del luogo, farneticando, andò dai tedeschi a dire di cercare un tunnel sotterraneo di collegamento (mai esistito) fra l’ospedale e il vicino seminario minore, entrambi sulla stessa riva dell’Ollasio.
“Spaventi ne presero in abbondanza la mie suore, spiega ancora Giorgetta, come quella volta in cui a Suor Laudelina Bragazzi, la portinaia, fu impedito di suonare la campanella per avvisare tutte dell’arrivo dei soldati. Proprio in quel momento si stava dando da mangiare ai partigiani nascosti, ma con l’aiuto del Signore e di un bel po’ di fascine, i nascondigli furono chiusi in breve tempo e anche quella volta i tedeschi rimasero a bocca asciutta”. Soltanto le suore conoscevano la dislocazione dei partigiani nei quattro nascondigli. Le suore e Pietro Fassetta, factotum che viveva in ospedale e, in cambio di vitto e alloggio, lavorava per la struttura. Nemmeno il dottor Ferruccio Ferrero, torinese, primario del piccolo reparto di Chirurgia dell’ospedale giavenese che operò, clandestinamente, la gamba di Fassino.
“Ricordo ancora bene una domenica dell’aprile del 1944” , racconta Giorgetta. “L’Ollasio era piuttosto impetuoso; suonarono la campanella e la portinaia, chiedendo chi fosse, capì, come risposta, “Comando militare!”. In un attimo fu il panico; i partigiani erano momentaneamente fuori dai loro rifugi per sgranchirsi le gambe e non si sarebbe fatto in tempo a riportarli al sicuro. Per fortuna, la suora aveva compreso male e il “comando militare” era in realtà un “ferito da medicare” che il rombo dell’Ollasio aveva reso poco comprensibile. Suor Delfina fu terribilmente colpita da questo episodio e fu da quel momento che cominciò a soffrire di seri problemi di salute, asma ed eczema soprattutto”.
In un’altra occasione Suor Delfina, il parroco della collegiata di San Lorenzo di Giaveno Don Giovanni Crosetto e il podestà del paese Giuseppe Zanolli, che di giorno faceva finta di obbedire agli ordini dei tedeschi e di notte cercava di aiutare come poteva i partigiani (fu poi eletto sindaco, dopo la guerra, fra le fila della DC), furono caricati su una camionetta e portati al comando di Avigliana dove per oltre ventiquatt’ore ore furono interrogati, non proprio amichevolmente. Nessuno dei tre parlò, sebbene ciascuno fosse a conoscenza dell’impegno degli altri due nell’aiutare i partigiani. Un impegno che certo difettava di coordinamento, ma maggiori comunicazioni avrebbero comportato maggiori rischi di essere scoperti, a detrimento della causa comune. Si dovevano inoltre tutelare i bimbi del “Paradiso”, come veniva chiamato il reparto, all’ultimo piano dell’ospedale, dove erano stati trasferiti i piccoli ricoverati della clinica Koelliker di Torino, divenuta troppo pericolosa con l’aumentare dei bombardamenti degli Alleati. “Ricordo ancora che da lassù si riuscivano a scorgere i potenti fari della contraerea”, racconta ancora Giorgetta. “Me li sogno ancora certe notti”.
Va sottolineato che Suor Delfina, durante la guerra, non era la superiora della piccola comunità cottolenghina di Giaveno. Fino al 1947, infatti, fu Suor Flora Lorenzina Longoni a dirigere le infermiere. Dal 1947 al 1969, fu invece proprio Suor Pettiti a reggere le sorti delle sue consorelle, ancora un aiuto indispensabile per un ospedale divenuto sempre più grande ed efficiente.
“La sua asma, tuttavia, non le dava tregua” , conclude Giorgetta. “Negli ultimi anni della sua vita, Suor Delfina continuò a svolgere il suo dovere, ma faceva sempre più fatica e, per risparmiare le energie necessarie al lavoro, evitava di uscire. Credo che, per quindici anni, non abbia messo il naso fuori dall’ospedale”.
Nel settembre del ‘69, le condizioni della “Suora partigiana” si aggravarono ulteriormente, tanto da costringerla al ricovero presso l’infermeria della Piccola Casa della Divina Provvidenza di Torino, dove morì il 18 gennaio 1970.
Oggi una via in una borgata di Giaveno, paese divenuto ormai città, porta il suo nome e solo gli anziani ancora ricordano il suo sorriso.
Questo articolo ha ricevuto na menzione alla IX edizione del Premio Piemonte Mese, Sezione Cultura