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Quelli di Pomaretto

 

 

 

Le Papillon: una cooperativa sociale che vuole diventare un centro estivo per ragazzi. Dahù permettendo...


intervista di Nico Ivaldi


Non può essere una serata normale se, mentre stai percorrendo una stretta via nel “centro” di Pomaretto, ti ferma un vecchio ingobbito che, invitandoti ad abbassare il finestrino dell’automobile, ti consiglia di stare attento perché è appena passato un dahù che, oltretutto, pare fosse piuttosto agitato.

Un dahù? Ma è una leggenda, tutti sanno che non esiste il dahù”, dico.

Questo è quello che pensa lei” fa il vecchio calandosi il basco e tentando di rimettersi in equilibrio con il bastone. “Anche ieri ce n’era uno, l’ho visto scappare su per i boschi con questi miei occhi, sa?”

“Capisco. Per non sbagliare vado in un posto chiuso, almeno non rischio di fare brutti incontri” (non di sicuro il dahù, il leggendario mammifero avvistato, dalla notte dei tempi, sulle Alpi e, forse, anche sui Pirenei).

Faccia così e buonanotte”, dice il vecchio scomparendo nell’oscurità.

All’interno di “Le Papillon”, Marco Ribet, cuoco con esperienza nei grandi hotel internazionali come nei rifugi di alta montagna, dal Jervis al Rosa, sangue mezzo marsigliese e mezzo alsaziano, può farti fare notte con le storie del dahù, di cui chi scrive non sa quasi nulla.

Ha le zampe asimmetriche – spiega Ribet con ampio gesticolare delle mani – quelle di destra sono più lunghe di quelle di sinistra per muoversi meglio sui ripidi pendii montani”.

O viceversa”, interviene Umberto Mondo, che con Ribet da pochi mesi ha messo in piedi questa cooperativa sociale. “Nel senso che potrebbe avere le zampe di destra più corte rispetto quelle di sinistra”.

Mi sento preso in giro, ma sto al gioco.

Nel caso che le zampe di destra siano più lunghe, si parla di dahù levogiro, mentre nel secondo di dahù destrogiro, in quanto, a causa di questa sua caratteristica fisica è costretto a girare sempre attorno alla montagna nello stesso verso. Insomma, i dahù destrogiri camminano in senso orario, mentre i levogiri in senso antiorario, ti è chiaro, vero!” dice Ribet.

Sono ancora in tempo a fuggire, penso. Dove diavolo sono capitato? Mi schiaccio contro il muro e sbircio fuori. La ghiaia trema sotto la frenata di un’auto di media cilindrata. Sono convinto che ci sarebbe abbastanza materiale per chiamare in questa valle una troupe di Voyager, ma quando ci raggiunge nel locale Danilo Breusa, sindaco di Pomaretto, si capisce che la ricreazione è terminata e che adesso si fa sul serio.

Avevamo bisogno come il pane di un posto come questo” sostiene Breusa. “Pomaretto, millequaranta abitanti, non offre molto nemmeno per i giovani. Questa cooperativa sociale può diventare un punto di riferimento importante soprattutto quando avranno attivato sinergie con la Pro Loco e con l’Associazione Pescatori, ad esempio”.

Nascosti dietro un tagliere di formaggi locali (qui si mangiano solo prodotti tipici) Mondo e Ribet ammiccano.

Spiega Umberto Mondo: “Tra i progetti in cantiere c’è quello di diventare la base di un centro estivo per ragazzi delle scuole; ci piacerebbe tenere piccoli animali, non escluse le cicogne, per visite didattiche, la posizione indubbiamente aiuta”.

Come dargli torto? Scriveva già Giuseppe Sallen nel lontano 1808: “Appena usciti da Perosa ecco stendersi dinanzi a noi il superbo anfiteatro di Pomaretto coi suoi rinomati vigneti, le sue belle praterie, le graziose ville che vanno adornando il paese da qualche anno a questa parte". 

Perchè questo nome, “le papillon”?

È la traduzione dal piemontese di ‘non più quello’”, spiega Umberto Mondo, “come a indicare un cambio di marcia, una svolta rispetto al passato, dal momento che qui c’erano le staggere, i tavoli con sopra i graticci di canne, dove in pratica si allevavano i bachi da seta. E se vogliamo papillon, che significa farfalla, può anche significare il ricordo della tradizione, del passato, visto che a Pomaretto, fino a un paio di decenni fa, il settore tessile dava lavoro a molte centinaia di pomarini”.

La tradizione occupa un posto importante anche nella cucina del locale dove tutto quello che si mangia è affare di Marco Ribet, che ha iniziato sotto la guida di Walter Eynard, il cui ristorante “Flipot” ebbe due stelle Michelin e fece di Torre Pellice un punto di riferimento per i ghiottoni di mezza Italia.

Manteniamo le nostre tradizioni di piatti poveri” dice il magrissimo Ribet, dalla bandana piratesca e dalla parlata agile, “con quel tocco in più che deriva dalla mia esperienza a tutto campo”.

Non ti mancano i rifugi?

Diciamo che ho trascorso delle stagioni indimenticabili anche se faticose, che il sole e il mare delle Canarie, dove andavo a svernare, provvedevano a rendermi più accettabili. Ora mi sono fermato qui a Pomaretto. Anzi, costretto a fermarmi a causa di un brutto incidente che mi ha reso invalido. Dunque niente di meglio di una cooperativa sociale come questa per rimettermi in pista”.

 Al sindaco chiediamo notizie del prodotto più importante del luogo: il vino Ramìe, pronunciato con l’accento sulla “i” e non sulla “e” come si sente spesso. I terrazzamenti si vedono bene all’imbocco della val Germanasca, che incombono sulla strada di fondovalle. 

È un esempio di viticoltura eroica e si produce tra Pomaretto e la vicina Perosa Argentina, a una quota tra i 600 e i 900 metri, lungo pendii estremamente ripidi contraddistinti da terrazzamenti a secco” spiega Breusa. “Una tradizione vinicola antichissima, che risale al Medioevo, colpita dalla fillossera alla fine dell’800 per poi rinascere nel secondo dopoguerra. Del nostro vino scrisse anche Luigi Veronelli, e bene”.

È un vino da pasto che non raggiunge i dodici gradi” spiega Ribet “ma è pieno, corposo, ricco”.

Aggiunge Umberto Mondo: “I contadini coltivavano queste vigne solo per passione, producendo il vino esclusivamente per l’autoconsumo”.

A sentire i due, pare sia valida ancora oggi la descrizione data da Goffredo Casalis, abate e storico dell’Ottocento, autore del colossale Dizionario geografico, storico, statistico, commerciale degli Stati di S.M. il Re di Sardegna in ventisei volumi. Scrisse dunque Casalis che “il Ramìe, bevuto eziando con qualche intemperanza, lascia libera la testa, ma vacillano le gambe a chi ne fa uso alquanto smodato”.

Il nome della Doc è “Pinerolese Ramie”, composto prevalentemente da un vitigno particolare e di estrazione montana come l’Avarengo insieme a minori quantità di Neretto di Bairo e Avanà. Oggi questo vino, prodotto in circa quattromila bottiglie, è ormai presente nei bar, nelle osterie e nei ristoranti del circondario e fornisce ai turisti che frequentano le valli un’esperienza aggiuntiva di conoscenza delle eccellenze del territorio

Mentre Ribet e Mondo, tra un calice e l’altro e una toma e l’altra, si intrattengono sulla porta de “le papillon” con un paio di giovani che dovranno occuparsi di tenere i rapporti con le scolaresche per le visite didattiche, Breusa spiega che, grazie a un viaggio in teleferica, “porteremo i turisti a degustare i vini direttamente nelle vigne e partendo dai ciabot, le piccole case in pietra. Vogliamo che le persone non si limitino ad assaggiare il Ramiè, ma ne scoprano la storia e i luoghi in cui nasce”.

Qualcuno si affaccia nella saletta dove stiamo conversando con il sindaco. La porta del locale è aperta, e il vento della valle non si preoccupa degli schiaffi che ci spedisce con le sue raffiche. Umberto Mondo la chiude, poi risponde al cellulare che ha come suoneria “Dance me to the end of love” una delle più belle canzoni (o poesie) del suo amato Leonard Cohen, che ha conosciuto personalmente e seguito in alcuni concerti.

Appare il vecchio del dahù, sorretto da un tipo sui venticinque anni che potrebbe essere un nipote oppure un semplice samaritano.

È andato, è andato” dice guardandomi ben fisso dentro gli occhi.

“Ah, il dahù. Bene, allora posso ritornare a Torino senza paura di trovarmelo in mezzo alla strada”.

Il vecchio annuisce con il capo.

Ritornano nella sala Umberto e Marco, con i quali, se soltanto lo desiderassimo, potremmo uscire da qui dentro ubriachi di storie.

Ancora a proposito del dahù, spiega Ribet abbiamo creato un marchio di formaggio realizzato sul piano inclinato, che porta il nome dell’animale. E poi ci piacerebbe mettere in commercio un boccale di birra tutto storto”.

Allora è vero che tira più un dahù che un pelo di…” conclude sogghignando Umberto Mondo, mentre ci accompagna alla macchina in una notte gelida che solo le storie di questa valle hanno saputo riscaldare.

 

 

 

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Hanno collaborato a questo numero:

Nico Ivaldi

Gabriella Bernardi
Federico Carle
Marco Doddis
Giulia Ferraris
Alessandro Granatelli e Tiziano F. Ottobrini
Eleonora Rossero
Irene Sibona

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