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Quando la Juve andava in bici

 



Giuseppe Hess, giocatore e presidente ai primi del Novecento, nei ricordi del nipote Umberto


Intervista di Nico Ivaldi


Hess.

Al tifoso bianconero che della storia della sua squadra pensa di conoscere tutto, questo cognome tedesco dirà poco o nulla. E ne ha ben motivo: Giuseppe (detto Pino) Hess ha vestito la maglia della Juventus in un’altra era calcistica, dal 1905 al 1912, prima di diventare Presidente della stessa società dal 1913 al 1915, quando partì volontario per la guerra. Non è stato un campione (ma a quei tempi, chi lo era?), non ha giocato molte partite da titolare; tuttavia, mentre la Juventus vinceva il suo primo scudetto nel 1905, lui, Hess, si laureava nelle stesse ore Campione d’Italia con la squadra riserve nel Campionato di Seconda Categoria.

C’è una fotografia che lo ritrae con la squadra, elegantissimo con bombetta e farfallino, alto una spanna in più dei suoi compagni, la mano vezzosamente infilata nella tasca del cappotto, un sorriso appena accennato: ma che ci faceva Hess (nato a Torino da genitori tedeschi nel 1885 e morto nel 1967) in mezzo a undici casacche bianconere?

Quella foto è stata scattata a Karslruhe, in Germania, nell’estate del 1912, dove la Juventus aveva giocato contro la squadra locale; forse è stata la prima trasferta in assoluto nella storia bianconera. Per la cronaca, si perse 3 a 1, quel giorno il nonno era in veste da dirigente, rappresentava una ditta tedesca, per la quale lavorava” spiega Umberto Hess, settant’anni, nipote di Giuseppe e memoria storica del nonno, oltre che lui stesso juventino di ferro.

Se proviamo a raccontare il calcio di quei primi anni del Novecento, di cui Pino Hess è stato uno dei pionieri, dobbiamo fare uno sforzo non indifferente per calarci in una realtà sportiva e sociale che nulla ha a che vedere con quella attuale.

I campionati duravano un giorno, alle volte un fine settimana. Le trasferte, i giocatori della Juve le facevano in bicicletta, tutti insieme. Quando c’era da prendere il treno, viaggiavano tutti in terza classe, ricchi e poveri; chi poteva, metteva i soldi anche per chi non poteva. E nessuno mangiava al ristorante per rispetto, ognuno si portava i panini” spiega Umberto.

Calciatori sì, ma soprattutto erano amici, studenti e lavoratori. Alla sera li si poteva trovare sul prato di piazza d’Armi (l’enorme area che confinava con via Montevecchio, corso Siccardi e l’allora nuovo rione Crocetta) per dare quattro calci al pallone, il famoso “oggetto quasi sferico, di rozzo cuoio a pezze rettangolari cucite dall’interno”, raccontato dall’impareggiabile penna di Gianni Brera. 

Giuseppe Hess era un terzino dal fisico possente ma piuttosto grezzo, alto più di un metro e novanta, soprannominato “tuclumac” (tentativo di traduzione: “toccalo appena” o “vacci piano”: una certa potenza atletica e l’abitudine a calciare di puntone imponevano cautela per evitare di dare la palla direttamente alla difesa avversaria). Era stato uno studente del d’Azeglio e, come altri giovani, bazzicava la storica panchina di corso Re Umberto. Appartenere alla squadra “rincalzi”, come Pino Hess, all’epoca significava non tanto essere meno bravi dei titolari, ma soltanto di qualche anno più giovani.

Mio nonno ammirava la Pro Vercelli, che in quel periodo era una delle più forti squadre italiane (vinse sette titoli tra il 1908 e il 1922, n.d.r); quando poteva, organizzava trasferte sul campo della Pro. Il campo dei bianchi di Vercelli distava un paio di chilometri dalla stazione, e i giocatori dovevano trasportarsi, anche sotto il caldo, le loro borse fino allo spogliatoio. Dentro il quale li attendevano due tini da vino, uno per squadra, pieni d’acqua, da utilizzare per il bagno del dopo-partita. A quei tempi si usava che la squadra in trasferta fornisse l’arbitro, scegliendolo fra le riserve: una volta toccò a mio nonno, e finì male. Quelli della Pro, non soddisfatti dell’arbitraggio, lo buttarono in un letamaio, fra le risate generali, comprese le sue! Un altro aneddoto che mi raccontava il nonno riguardava il portiere del Casale, altra squadra importante dell’epoca: siccome di professione faceva il ladro di polli, nel senso vero del termine, vicino alla porta sostavano due carabinieri, pronti a impedire ogni tentativo di fuga del ‘giocatore’!”

A causa della separazione dei suoi genitori, Umberto Hess ha vissuto una decina di anni in casa col nonno, che negli anni Cinquanta, anche a causa di un vecchio problema alla gamba che ne limitava la mobilità, aveva trasformato in un ritrovo per ex giocatori della Juventus.

In quel salotto ho conosciuto Lorenzo Valerio Bona, centravanti degli anni ’10, implacabile goleador, un giocatore che fisicamente ricordava Mandzukic, tanto per rimanere nell’attualità. Ho chiacchierato con Silvio Piola, con Baldo Depetrini. Ho fatto amicizia con Felice Borel, detto ‘farfallino’, uno dei più forti centravanti bianconeri, una persona simpatica con idee moderne: proprio con Borel il nonno parlò addirittura di creare un museo della Juve. Molte volte mi portava allo stadio, vidi con lui l’ultimo derby prima che il Toro cadesse a Superga. Se ricordo qualcosa? No, quel giorno sfogliavo ‘Topolino’, mi raccontava il nonno.”

(Per la cronaca i granata vinsero 3 a 1, era il 13 febbraio del 1949).

Dottor Hess, con quale spirito Giuseppe Hess visse il passaggio del calcio da momento ludico di aggregazione per pochi giovani, all’attuale fenomeno di massa, con tutte le punte di imbarbarimento che conosciamo (tifo malato, ingaggi folli, ecc.)?

“Lo visse male. Al nonno il calcio aveva smesso di appassionare fin dagli anni ’60, quando ormai questo sport stava prendendo la strada del professionismo. Comunque continuava a seguirlo, a tifare per la sua Juve (gli piaceva sentire le partite alla radio) ma senza mai nutrire odio per le altre squadre, Torino compresa (era molto amico di Enrico Marone Cinzano, presidente della società granata negli anni Venti).

Giuseppe Hess, dopo essersi laureato in legge (ma senza avere mai esercitato la libera professione) fu rappresentante di commercio e quindi industriale nella ditta impiantata dal padre, originario della Germania.

Era un uomo di un’assoluta rettitudine. Piuttosto che fallire con la sua azienda, nel 1951 pagò di tasca propria il mensile a duecento operai. Al mattino mi accompagnava a scuola dopo una colazione con acciughe salate e burro. Era burbero e severo. In politica era un antifascista convinto, è stato lui ad avermi avvicinato ai principi del liberalismo. Viveva la sua fede religiosa come un fatto privato: scoprii che fosse protestante quando vidi il pastore Ayassot al suo affollato funerale. Infine, amava la sua famiglia e aveva una passione sconsiderata per il vino del Reno, che aveva scoperto grazie alla sua origine tedesca. E amava la sport, come tutta la nostra famiglia…”

Adolfo, il fratello più vecchio di otto anni di Giuseppe Hess, è stato tra i precursori dell’alpinismo senza guida, ha fondato lo Ski Club Torino (il primo d’Italia) e il Club Alpino Accademico Italiano, oltre a essere stato il primo direttore del Museo Nazionale della Montagna di Torino. Adolfo Hess era anche molto amico di Paolo Kind, figlio di quell’Adolfo Kind che, primo in Italia, aveva importato dalla Norvegia, a fine Ottocento, due paia di “assi” in legno: gli odierni sci.

Quanto a Luciano Hess, padre di Umberto, è stato un buon giocatore di baseball, prima negli Stati Uniti (dove era stato mandato per motivi di lavoro dal padre dopo la fine della seconda guerra mondiale), poi in Italia: ha giocato fino a quarant’anni e arbitrato oltre i cinquanta. 

E lei, Umberto Hess, che sportivo è stato?

Ho cominciato nei pulcini della Juve, ma ben presto il mio istruttore Mario Pedrale, uno dei più grandi istruttori di calcio, ha chiamato il nonno e gli ha consigliato di farmi fare un altro sport, diceva che ero negato per il calcio. Però ho giocato fino a quarantasette anni, anche se non ad alti livelli. Ero uno stopper molto ruvido e scorbutico, al mio confronto Montero o Chiellini sono difensori raffinati! Se il metro di arbitraggio di oggi, l’avessero applicato al sottoscritto, avrei giocato solo cinque minuti a partita. Nel ‘66 ho fatto parte della rappresentativa universitaria torinese, e ho dovuto marcare, con le buone o con le cattive, un certo Giorgio Chinaglia, un bestione di diciannove anni che allora giocava nell’Internapoli.”

Anche lei ha avuto una vita piena e soddisfacente dal punto di vista professionale.

Ho lavorato per quarant’anni, con mio grande interesse, per una grande compagnia di assicurazioni, dove, partendo dai rimborsi di parafanghi e fanalini delle automobili, ho finito per occuparmi della liquidazione danni di alcuni dei disastri più grandi degli ultimi anni, compreso quello del tunnel del Monte Bianco, nel 1999. Il caso più curioso che mi sia capitato di seguire? Successe a New York, trentacinque anni fa. Una signora acquistò in Italia un forno a microonde e lo portò negli Stati Uniti. Siccome era abituata a far asciugare il pelo ai suoi gatti nel vecchio forno tradizionale, pensò che mettendoli in un forno più moderno avrebbe fatto prima e meglio. Così accese il forno a microonde e mise i gatti dentro, carbonizzandoli! Fece causa ai costruttori italiani, perché non l’avevano avvisata che non si potevano mettere cose vive nel forno. Alla fine, chiusi la transazione per conto della ditta con un risarcimento di trecentomila dollari alla incauta signora.”


Immagini (nell'ordine)
Giuseppe Hess con la squadra nel 1912
Luciano Hess negli anni Trenta con Orsi, Cesarini e Rosetta
La squadra nel 1905

 


 

 

 

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Quando la Juve andava in bici
Pino Hess, giocatore e presidente ai primi del Novecento
intervista di Nico Ivaldi


  

 

 

Hanno collaborato a questo numero:

Nico Ivaldi

Giovanni Andriolo
Lucilla Cremoni
Piervittorio Formichetti
Carolina Quaranta
Viviana Vicario

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