Rasid Nikolic, The Gipsy Marionettist
Intervista di Nico Ivaldi
Uno scheletro si aggira per Torino. E non solo, per Torino. Qualcuno l’ha visto anche in altre città italiane e pure in Europa. Ma è uno scheletro innocuo: piace da matti ai più piccoli, anche se, non appena comincia a muoversi e a correre, più di un bambino indietreggia timoroso.
Il suo nome è Pino, come il legno con cui è stata costruita questa particolare marionetta, e il suo papà si chiama Rasid Nikolic, ventisei anni, l’artista di strada con il quale da un po’ di tempo condivide un bel pezzo di vita sulle strade del mondo.
Quando incontriamo Rasid, Pino sta riposando all’interno del laboratorio nella vecchia Torino, dove il giovane rom di origine bosniaca allestisce i suoi spettacoli, costruisce i personaggi e prepara le lezioni per gli allievi dei corsi di marionette. Il laboratorio (mezzo atelier d’arte, mezzo falegnameria e anche mezzo studio d’architettura) è in realtà un piccolo spazio di creatività, dove si affollano disegni, schizzi, libri, materiali di ogni tipo (legno, ferro, vernici, spray), biciclette, quadretti, una poltroncina di vimini. Ma su tutto spicca il coloratissimo “The Gipsy Marionettist”, il minicaravan-palcoscenico che si attacca alla bicicletta e con cui Rasid porta in giro i suoi personaggi.
“Se ti racconto la mia storia, capisci che forse ero destinato a fare altro” esordisce Rasid, finendo di preparare un caffè turco molto leggero, ben diverso dal bosanska kafa che si beve a Sarajevo. Capelli ricci neri, baffetti arcuati che ricordano vagamente quelli di Dalì, occhio sveglio e molto espressivo, Rasid parla un italiano perfetto, privo di cadenze e inflessioni.
“Ero piccolo quando è scoppiata la guerra in Bosnia. La mia famiglia proviene da Banja Luka, dove esiste una delle più grandi comunità rom d’Europa. Facevamo una vita normale: papà era laureato e conosceva sette lingue, lavorava i terreni di famiglia e un giorno avrebbe rilevato l’azienda agricola dei suoi. Quando viene richiamato alle armi, diserta, non se la sente di sparare alla sua gente: lui è serbo ortodosso e mia mamma musulmana bosniaca. Scappa a Berlino dove lo raggiungiamo”.
Ti ricordi qualcosa della guerra?
“No, se non quello che mi hanno raccontato gli adulti. Come la fuga da Banja Luka e il rischio di finire nei campi di sterminio insieme agli altri musulmani: se siamo ancora qui lo dobbiamo a una guardia di un posto di blocco che, durante lo smistamento dei prigionieri, riconobbe mia madre, suo amore giovanile, e ci condusse in salvo. A Berlino restiamo un anno in un campo di accoglienza, dopo di che, con il denaro che ci viene dato, acquistiamo un camper ma non per tornare in Bosnia, dove la nostra casa nel frattempo se l’era presa qualcun altro, ma per venire in Italia, a Milano, dove esisteva già una cospicua comunità rom. Purtroppo sbagliamo strada e finiamo a Torino”.
All’inizio i Nikolic vivono nei campi nomadi e mendicano per strada: per loro come per altri nomadi il destino sembra segnato.
“Mio padre, che è sempre stato un tipo orgoglioso, non chiedeva soldi ma generi alimentari. Una volta hanno regalato a mia sorella un giocattolo, il camper di Barbie, sembra uno scherzo del destino, un camper proprio a noi.. Poi le cose sono cambiate: papà ha trovato lavoro come giardiniere e mia mamma come lavapiatti in un ristorante (oggi fa la cuoca e anche papà lavora nella ristorazione). E abbiamo una casa”.
Dove hai imparato a parlare così bene l’italiano?
“Facevo le elementari, che avevo cominciato sapendo già leggere e scrivere, grazie anche a mio padre che ha sempre insistito perché mia sorella e io studiassimo. Subivo i soliti, classici dispettucci dai miei compagni di classe, ma niente di particolare, sono cose che mi hanno rafforzato il carattere. Avevo deciso di togliermi l’accento serbo e così, durante le vacanze estive, mi sono letto un centinaio di libri. Molti ad alta voce. I più belli? Il gabbiano Jonathan Livingston e Capitan Mutanda. A quel punto parlavo l’italiano meglio di tanti altri italiani”.
E sono migliorati i rapporti con gli altri ragazzi?
“Rapporti di amicizia veri e propri non ne avevo, mi piaceva starmene per conto mio. Non puoi diventare amico di qualcuno quando hai una casa troppo piccola per invitare i compagni a fare merenda, ti manca la bicicletta e giri con le scarpe bucate. Il mio unico amico era un bambino cinese, col quale comunicavo a fatica. Ricordo che una volta mi aveva invitato a casa sua e mi aveva dato da mangiare una ciotola di riso scotto con dei wurstel crudi. Però aveva una sorella con dei lineamenti meravigliosi, che ammiravo come un bel quadro”.
Da dove nasce la creatività che oggi ti permette di lavorare nel campo dello spettacolo?
“Forse da bambino, quando vivevamo in un campo. Abitavamo in un camper tutto scassato e aperto, senza le ruote, con porte che ‘dividevano’ le varie camere. Quando pioveva assistevi a scene alla Kusturica, con il divano che galleggiava nell’acqua. Io giocavo da solo e m’inoltravo nei boschi, che per me erano grandi come una foresta, e alle volte mi perdevo. Mia mamma mi diceva sempre: una persona può andare fin dove lo portano le gambe, ma quando torna sono botte, a prescindere da dove sei andato o quanto tempo sei stato via. Giocavo con i nomi degli alberi, esploravo la natura; una volta ho raccolto un bellissimo sasso giallo. Quando hanno sgomberato il campo, la pietra gialla è rimasta nel bosco. Sono contento che sia ancora laggiù, così posso immaginarmela protagonista di tutte le storie che voglio”.
Rasid inizia facendo improvvisazione teatrale con un gruppo del suo quartiere, l’Associazione Culturale Masala, dove conosce “gente meravigliosa, con cui ho subito instaurato un rapporto profondo. Ma a quell’epoca, spiega, non ero ancora convinto che il teatro potesse diventare il mio lavoro. Io volevo costruire giocattoli, sentivo che avevo una buona manualità e disegnavo bene. Così, anche su suggerimento dei miei genitori, alle superiori mi sono iscritto a geometra, nonostante volessi fare il liceo artistico. Eppure, anche se non l’avrei mai detto, quegli studi mi sono serviti. Ho imparato il disegno tecnico, la geometria, la matematica. Poi è successo che quattro mesi prima del diploma sono andato in crisi perché ho realizzato che prendere il diploma voleva dire fare il geometra o magari iscrivermi ad architettura, non esattamente i miei obiettivi. E così…”
Così?
“Dopo l’ennesima litigata con i miei sono scappato in Spagna e ho vissuto in Andalusia. Poi sono ritornato a Torino, dove ho lavorato con i metalli e provato nuove strade artistiche. Per mantenermi ho fatto il cameriere in alcuni ristoranti. A prendere le comande ero un mezzo disastro, ma ero bravissimo a intrattenere i clienti, a farli ridere con le mie battute. E loro mi ripagavano con belle mance. In un altro ristorante, dove ogni mese c’era un’esposizione di quadri, mi divertivo a spiegarli al clienti secondo la mia interpretazione, e qualche volta riuscivo anche a venderne qualcuno”.
Negli ultimi anni Rasid si dedica anima e corpo alle marionette. Perché hai scelto proprio le marionette?
“Perché costruire marionette ti permette di lavorare con più materiali e di utilizzare tecniche particolari: l’intaglio, la stringatura, la parte della composizione dei controlli e del movimento della marionetta, la lavorazione del legno, dei metalli, la pittura. Tanti marionettisti comprano marionette fatte in serie, tutte con gli stessi controlli. Le mie invece sono più complesse, possiedono controlli su misura. Ed è quello che insegno agli allievi del mio laboratorio”.
Ti piace insegnare?
“Moltissimo. Io spiego le tecniche di base dell’intaglio del legno (a coltello o taglierino e poi a scalpello), ma sono fisicamente gli studenti a lavorare il materiale. Se qualcuno trova poi nel legno un limite (anche se è il materiale per eccellenza per le marionette ed è per questo che lo consiglio), può utilizzare la creta o gli stampi per la resina e viene seguito anche in questa lavorazione”.
Con le marionette a Rasid piace improvvisare. Non è il tipo da spettacolino classico con la musica in playback; molte volte si mette a correre per la strada muovendo il suo scheletro. È molto teatrale, recita, racconta: forse è anche questo il segreto del suo successo.
“Da cinque anni vivo di questo lavoro. Sono riuscito nel mio sogno, anche se non è facile. Mi esibisco in Italia o all’estero, a seconda degli inviti che ricevo o dei festival ai quali mi iscrivo. Oltre a Pino, che rappresenta mio padre nella sua magrezza, un altro dei miei personaggi è la tigre Jasminka, che si chiama come mia madre; ora ne sto costruendo un altro, una ballerina, che simboleggia mia sorella Ivana, che fa la danza del ventre. Così, quando vado in giro, mi porto dietro tutta la mia famiglia e non mi sento solo”.
Ma Rasid non dimentica chi è né da dove viene.
“A modo mio cerco di combattere i pregiudizi verso i rom, che sono sempre tanti. Con una battuta, mi viene da dire che noi non rubiamo bambini: siamo già abbastanza fertili così! A parte gli scherzi, in Italia se è vero che quarantamila rom e sinti vivono in situazioni di povertà – e sono quelli che compaiono nelle pagine di cronaca nera - è anche corretto ricordare che ne esistono altri centotrentamila integrati che vivono in case normali e hanno un lavoro. Secondo un recente rapporto dell’Associazione 21 luglio, un bimbo rom su cinque non va a scuola, solo uno su cento andrà alle superiori e nessuno frequenterà l’università”.
Così, nei ritagli di tempo, Rasid s’improvvisa taxista per accompagnare i bambini rom a scuola: quasi sempre gli insediamenti sono distanti dagli istituti scolastici, i mezzi pubblici non ci sono e i piccoli scolari sono costretti a fare più di due ore a piedi per raggiungere le aule.
“L’istruzione è fondamentale per costruire il futuro e per andare verso una vera integrazione. Noi facciamo parte di quella seconda generazione di rom istruiti ed è nostro compito aiutare i più piccoli a emanciparsi nonostante a volte sembri più facile convivere con i problemi piuttosto che affrontarli. Mi piacerebbe che nessuno diventasse ladro di macchine come mio nonno. Io ci sono riuscito, perché non dovrebbero farlo altri?”