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Quarantatre

 

 

 


L'eccidio di Fondotoce 


Viviana Vicario


Lungolago di Intra, 20 giugno 1944. Quarantatre partigiani incolonnati, in marcia verso il plotone d'esecuzione. I primi due reggono un cartello, consegnato loro dai nazisti, con la scritta: “Sono questi i liberatori d’Italia oppure sono i banditi?”. 

Una foto storica, ormai passata alla memoria collettiva di Fondotoce. Proprio qui, sulla riva del canale che unisce il Lago di Mergozzo al Lago Maggiore, i protagonisti di quella foto furono fucilati. L’eccidio durò quasi un’ora, ma il suo ricordo e gli ideali delle sue vittime rimangono nei nomi incisi sul Muro della Memoria e sulla croce che al fondo del “Parco della Memoria e della Pace” inneggia: “Ragazzi viva l’Italia, viva la libertà per tutti!”. 

Era il grido di una donna che si chiamava Cleonice Tommassetti. Nella fotografia che la ritrae assieme ai suoi compagni è la prima della fila. D’origine laziale, Cleonice si trovò  fra i martiri di Fondotoce senza neanche ancora aver iniziato a combattere. La sua storia è travagliata, fatta di trasferimenti, violenze e abusi. Da Petrella Salto a Roma, da Roma a Milano, e infine a Fondotoce; Cleonice fuggiva per vivere una vita migliore, ma incontrò la morte. A sedici anni era stata violentata dal padre, da cui aveva avuto un figlio, nato morto. Dopo vari spostamenti, lutti ed eventi drammatici, si era trasferita a Milano e aveva iniziato a lavorare dal sarto Eugenio Dalle Crode. 

In un giorno d’inizio giugno del 1944, un diciottenne appena chiamato alle armi andò alla sartoria. Disse di voler disertare e andare sulle colline del Verbano assieme ai partigiani. Cleonice non ci pensò un secondo e decise di unirsi a lui. Arrivati in una baita delle montagne verbanesi vi passarono la notte, ma il mattino seguente si accorsero di essere nel bel mezzo di uno dei rastrellamenti più feroci della Resistenza. 

Iniziato l’11 giugno 1944, il rastrellamento della Valgrande fu uno dei peggiori stermini di partigiani della storia italiana: circa cinquemila tedeschi ben equipaggiati contro poco più di quattrocento partigiani affamati, stremati e male armati. Cleonice non ebbe modo di combattere per la libertà di cui da sempre era stata privata. Qualche giorno dopo fu portata nelle cantine di Villa Caramora, sede del comando delle SS, assieme ad altri prigionieri provenienti dall’asilo di Malesco. 

La mattina del 20 giugno 1944 iniziò la marcia verso la morte dei quarantatre prigionieri.
Il ricordo di quelle poche ore risiede nelle parole dell’avvocato Emilio Liguori, testimone della strage, che era già imprigionato nelle cantine di Villa Caramora per sospetta attività antifascista. Assistette all’arrivo dei futuri martiri di Fondotoce e alle torture inflitte loro prima dell’esecuzione. “La porta della cantina si apre e vengono fatte entrare una trentina di persone, spinte avanti a calci e a colpi di canna di moschetto da una squadra di omacci inferociti, bestiali, i quali indossano la cosiddetta onorata divisa del soldato del popolo eletto, dell’Herrenvolk, del superpopolo: il teutonico”. 

Il racconto di Liguori procede lento. Parole precise, efficaci, cariche di dolore e pregne di un significato che rievoca quel momento anche in chi non lo ha mai vissuto. “Ogni nerbata, ogni colpo è per giunta accompagnato da un grugnito che sta a indicare la compiacenza dei carnefici. Una scena orribile, dico, con la quale contrasta la nobile serenità dei torturati. Non un grido, non un lamento. Una fierezza diffusa sul volto di tutti”. Ma il culmine della brutalità venne raggiunto quando “ordinato loro di distendersi bocconi a terra, i teutonici si mettono a pestarli camminandoci sopra con gli scarponi chiodati, grugnendo animalescamente”.

Anche Liguori notò la figura di Cleonice, maltrattata ancora di più dei suoi compagni. La loro furia si sfoga sul corpo della donna; ma Cleonice non demorde e “non solo incassa ogni colpo senza emettere un grido, ma, calma e serena, fa coraggio agli altri giovani, malconci da quella furia bestiale”. Ed è qui che Cleonice pronunciò la frase che la consacrò eroina e icona dei valori più alti della Resistenza: “Se percuotendomi volete mortificare il mio corpo, è superfluo il farlo; esso è già annientato. Se invece volete uccidere il mio spirito, vi dico che è opera vana: quello non lo domerete mai! Ragazzi, viva l’Italia, viva la libertà per tutti”. 

Quarantatre di loro furono prelevati da Villa Caramora alle 15 del 20 giugno 1944. Li fecero sfilare sul lungolago verbanese. Era un giorno caldo, le strade erano deserte. 

Irene Magistrini aveva solo sette anni, ma se lo ricorda ancora: la visione di quelle persone che lentamente andavano verso la morte già presente nei loro sguardi, la segnò per sempre:
“Era una bellissima giornata di giugno. Il sole risplendeva nel cielo di una luce pulita. Eravamo alle porte dell’estate, ed era così surreale pensare che un giorno così bello potesse diventare l’ultimo della loro vita”, racconta. Gli attimi di quel giorno si susseguirono a ritmo frenetico: “Non appena li vidi arrivare mi buttai dietro a una camelia. Li spiai fra le foglie. Si pensava che li avrebbero portati in Germania a lavorare, ma c’era qualcosa di strano nei loro occhi”.

Quegli sguardi vuoti, spenti della vita di cui sarebbero stati privati di lì a poco, sconvolsero la piccola Irene. Alcuni ragazzini li seguirono in bici. Pedalarono fino all’incrocio dei laghi, poi tornarono indietro, sconvolti: “Li ammazzano, ci dissero. Io tornai a casa. Scoppiai a piangere”. 

Solo uno di loro si salvò. Nonostante le SS avessero inflitto a tutti il colpo di grazia, il proiettile gli sfiorò la testa, senza ucciderlo. Si chiama Carlo Suzzi, ed è tuttora vivente. Gli abitanti di Fondotoce lo aiutarono a rialzarsi. Trovò poi ospitalità presso dei contadini e una volta ristabilito prese il comando della Divisione “Valdossola”. Si fece chiamare Quarantatre, in ricordo dei martiri. 

Nel luogo dell’eccidio si erge ora una croce altissima, alle sue spalle un monumento di lastre in marmo di Candoglia, su cui sono incisi i nomi dei quasi 1300 caduti nella provincia di Novara. Si chiama “Parco della Memoria e della Pace”, e fu inaugurato nel 1964 da Sandro Pertini. 

A fianco del Parco c’è la Casa della Resistenza. Irene Magistrini, classe 1938, la stessa bambina che fu testimone della marcia dei condannati, ne è ora la presidente. Con grande determinazione porta avanti una delle battaglie più ardue: conservare la memoria. “Dal 1996, la Provincia ci ha affidato la gestione della Casa della Resistenza per 99 anni” si consola. Ma è sicura che il ricordo della Resistenza non si perderà: “Abbiamo una biblioteca di quasi ventimila volumi di storia locale. Da qualche anno gestiamo anche un centro di documentazione fotografica, a cui chiunque lo desideri può contribuire portando del materiale”, spiega. “Accogliamo circa quindicimila visitatori all’anno, di cui cinquemila sono studenti. Per loro proponiamo tre tipi di visita: la prima comprende una visita base della Casa di due ore; nella seconda c’è l’aggiunta di alcuni laboratori adattabili per fasce d’età; mentre la terza dura un giorno intero in cui li accompagniamo nei luoghi più significativi della Resistenza del Verbano Cusio Ossola. In ogni caso, chiunque voglia venire a trovarci, anche singolarmente, può entrare negli orari di visita”.

In occasione del 25 aprile, la Casa della Resistenza allestirà una mostra sulla figura di Sandro Pertini. A seguire si terrà un convegno realizzato in collaborazione con la Fiap (Federazione Italiana Associazioni Partigiane).

Info

Associazione Casa della Resistenza

Via Turati 9, Verbania Fondotoce

Tel. 0323 586802, www.casadellaresistenza.it

 

 

 

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Hanno collaborato a questo numero:

Nico Ivaldi

Giovanni Andriolo
Gabriella Bernardi
Marco Doddis
Danilo Poggio
Viviana Vicario

 

 

 

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