Dalle macerie del 1908 alla rinascita con fondi e architetti piemontesi
di Pasquale Nava
“Questo edificio sacrato al sollievo degli umani dolori / perpetuo attestato di italica fraternità cimentata nell’ora della sventura / i piemontesi decretarono ed eressero”. Così recita la targa marmorea all’ingresso dell’Ospedale “Piemonte” di Messina, costruito proprio dai subalpini dopo il sisma del 1908. La distanza geografica tra le due regioni venne così obliterata dal sentimento più puro dell’essenza umana: la solidarietà. Una comunione di inestimabile valore, specie se calata in una realtà come quella siciliana, deficitaria di risorse e di strutture. Un grido di dolore che destò la sensibilità dei piemontesi e, soprattutto, la concordia nazionale, come si legge su questa lapide del 1913: "Il forte Piemonte / assertore dell'unità nazionale / volle con questo edificio / destinato al soccorso di poveri infermi / affermare coi grandi ideali della solidarietà umana i vincoli fraterni ed indissolubili / che uniscono gli italiani e fanno salda e forte la patria".
L’umanitarismo del popolo sabaudo si rese protagonista persino nell’imminenza del disastro. Il Comitato di riferimento, nelle ore successive al terremoto, aveva difatti reperito i fondi per l’assistenza ai profughi ed alleviato, almeno in parte, le ferite dei messinesi. L’esempio più eclatante fu l’eroismo del torpediniere “Piemonte”, da giorni ancorato per riparazioni nella zona falcata: il personale di bordo soccorse quasi cinquecento feriti, trasportandoli poi nell'area più sicura del Milazzese. Il cataclisma mieté però vittime eccellenti: tra le tante, il comandante Francesco Passino e la sua famiglia, oltre ad una fetta consistente della ciurma, stanziatasi alle prime luci dell’alba sulla terraferma.
Il filo conduttore di questa immane disgrazia (si contò un numero imprecisato di morti tra i novantamila e i centoventimila) fu comunque la generosità dei piemontesi. Nel biennio successivo, infatti, il loro filantropico intervento fruttò la cifra di 600.000 lire. Una quota gigantesca per l'epoca, e destinata interamente all'edificazione di un ospedale presso Contrada Carrubbara (accanto all'attuale Viale Europa). L'originaria allocazione di quattrocento posti letto venne superata da un più realistico progetto di duecento, a fronte della quotidiana degenza di circa centocinquanta pazienti. Le sue funzioni, tuttavia, non rimasero circoscritte a quelle palliative e si cominciò ad ospitare altre attività, tra cui laboratori, biblioteche e la didattica (soprattutto dopo la chiusura della Facoltà Medica dell'Ospedale Clinico Consorziale, situata presso l'odierno Quartiere Americano). Il Piemonte aveva insomma regalato ai messinesi non solo un ristoro per il corpo, ma anche un conforto per l'anima sanitaria della provincia. Lo scriveva apertamente nel 1933 Pietro Longo (famoso giornalista peloritano): “L’Ospedale venne intitolato al nome del glorioso Piemonte. L’opera nel suo complesso, per i servizi resi, rimane tra le più vive nel novero di quelle che ricordano ai messinesi l’amorevole fratellanza degli italiani”.
Costituirono invece un capitolo a parte gli antefatti della nascita della struttura. Nella prima apertura del 15 febbraio 1911, il centro venne battezzato direttamente dal Comitato Piemontese di Soccorso, risoluto nell’abbracciare tempestivamente la causa della popolazione. Tale privatizzazione del servizio medico, però, cozzava con le strategie politiche della classe dirigente. E dalla battaglia - che oggi si derebbe mediatica - con il Comune, il Comitato uscì malconcio, e la stessa gestione dell'ospedale passò nelle mani dell'amministrazione pubblica. Il 28 agosto 1913 il nosocomio fu consegnato al Comune ed al quarto anniversario del terremoto (il 28 dicembre) inaugurato per una seconda volta. La dipartita della città era stavolta di stampo morale: si erano difatti uccisi i veri salvatori della realtà urbana (i piemontesi), calpestati e spogliati per ragioni politiche delle loro oggettive qualità caritatevoli. Lo si farà più volte nel corso della stessa storia messinese, anche con l’intimazione (purtroppo attuale) da parte dei vari sindaci di volerne chiudere i battenti per motivi finanziari.
Il contribuito piemontese alla causa cittadina non fu comunque limitato all’esborso finanziario. Ne è prova l’architettura del fabbricato, opera di menti torinesi. Su tutte quella dell’ingegnere Pietro Gambetta (progettista della sede della Società Canottieri Caprera e fondatore della società di ingegneria SI.ME.TE di Torino), incaricato della direzione e della costruzione dell’edificio. Per la decorazione della facciata fu invece designato Pietro Quadri: i suoi stemmi di Messina e di Torino dominano tuttora l’attico della stessa, e dall'intento di rappresentare la generosità umana deriva la sua scelta delle celeberrime sagome antropomorfe dalla postura “a braccetto”, che svettano ancora oggi sulla struttura. Per accentuare la commistione spirituale, aggiunse le rispettive corone turrite. “In pectore”, inoltre, furono scolpiti il vessillo della città peloritana (croce gialla su sfondo rosso) e quello di Torino (toro giallo su sfondo blu), in giustapposizione alla rifinitura fitomorfa (fiori e foglie) e ondulatoria tipica del Liberty. Uno stile, quest’ultimo, voluto da altri due progettisti torinesi: Pietro Fenoglio e Riccardo Brayda (di origine genovese), massimi esponenti della corrente.
Il design dell’ospedale non venne però realizzato con le estremizzazioni tipiche dell’Art Nouveau, ma si preferirono tratti sobri e moderati. Si rispettò nella sostanza la semplicità e la morigeratezza funzionalista del progetto preliminare, segno di rispetto per la tragedia cittadina. Sia per Fenoglio sia per Brayda si trattò di un vero e proprio dietrofront architettonico, col prevalere del lutto rispetto alle originarie idee tecniche. Certo, lo spirito non fu abbandonato del tutto - si vedano le piastrelle blu alle paretii - ma non si poteva fare del nosocomio un laboratorio di ridondanze decorative ed ornamentali.
Questo articolo ha ricevuto una menzione all'ottava edizione del Premio Piemonte mese, Sezione Cultura e Turismo