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Dakar Soundbites

 

 

Di montoni arrosto e per la strada


di Fabrizia Galvagno


Questo Dakar Soundbite richiama nel titolo una serie di articoli che Fabrizia Galvagno scrisse per noi nel 2006, quando lavorava a New York (chi si fosse perso i “New York Soundbites” può scaricare i vecchi numeri in .pdf semplicemente cliccando sull'icona “archivio Piemonte Mese” in alto a destra). 

Fabrizia, che fa la documentarista (www.docinprogress.com), è reduce da due anni di lavoro fra Kenya e Senegal per il progetto Docusound - audioracconto della realtà, che trovate su  www.docusound.it 

 

   


Inizio ottobre 2014

L’aria di Dakar sa di mare, ma anche di gas di scappamento di auto vecchie, di immondizia lasciata per strada e di montone. In questo periodo sa molto di montone perché la città ne è piena: ogni aiuola, ogni spartitraffico, ogni spiazzo sono un allevamento di fortuna per i pastori urbani che allevano e vendono i montoni per la festa della Tabaski (Aïd el-Kebir o Eid al-Adha, a seconda dei paesi), durante la quale il musulmano tradizionalista sacrifica un montone a Dio, ripetendo all’infinito il sacrificio di Abramo. L’idea è che ogni buon musulmano che può permetterselo compra un montone da sacrificare, che poi viene cucinato in varie forme e condiviso con la famiglia, i vicini di casa, i poveri e i mendicanti. Più o meno un mese prima della Tabaski la città si riempie di montoni (a dire il vero, anche fuori stagione non è raro trovarne che masticano placidamente cartone e plastica sul ciglio della strada) e, se l’anno scorso mi dicono che ci sia stata una scarsità di montoni per cui molti sono rimasti senza, quest’anno dai villaggi ne sono stati fatti arrivare troppi e fino all’ultimo ne sono stati venuti pochi: la crisi c’è anche qui e di fronte all’esubero di offerta la domanda si è attivata all’ultimo minuto (i dati post-festa parlano di 26.000 montoni invenduti nella sola Dakar e dintorni).

Comprare il montone è una questione di religione, di onore, di status symbol e di tradizioni familiari e il prezzo di un montone parte da 100 euro ma, a seconda anche del numero di controlli veterinari, può arrivare anche a 500 euro o più. E in un paese che vive per la maggior parte di piccola economia informale e tira a campare da un giorno all’altro, 100 euro non sono uno scherzo. 

Spesso il montone viene comprato a Dakar e poi trasportato al villaggio dove si farà la festa, perché l’andazzo è “se lavori a Dakar sei di certo ricco e se sei ricco devi sbarcare col montone, non ci sono scuse”. I montoni più “fortunati” viaggiano in auto con i proprietari mentre gli altri viaggiano in motorino o sul tetto degli autobus, coperti da reti. E questi viaggi durano a volte fino a sei o sette ore. A volte, ai lati della strada si vedono dei montoni morti: sono quelli finiti fuoribordo durante il trasporto. Molti montoni che viaggiano sul tetto degli autobus non arrivano a destinazione vivi: per via del caldo, ma anche per lo spavento e probabilmente lo schiacciamento della cassa toracica. E quei montoni non vengono mangiati ma seppelliti perché i musulmani non mangiano un animale che non sia stato sgozzato, che è un termine un po’ duro ma è così. Immagino la tragedia di un poveretto che si è indebitato per comprare il montone (e succede molto spesso) e poi ne deve comprare un altro alla chetichella.

Attorno alla compravendita dei montoni sorge un mercato informale temporaneo ma 

rilevante che va dal lavatore di montoni (l’igiene e la pulizia dei montoni non sono affare del pastore) al venditore di coltelli affilatissimi e di barbecue. Altrettanto importante ma più impressionante è, in sede post sacrificale, il raccoglitore di pelli che passa di casa in casa con una cariola e raccatta le pelli per venderle alle concerie. Nei villaggi, dove spingere una cariola sulle strade di sabbia è un casino, il raccoglitore di pelli se le porta in spalla. 

Ho vissuto i giorni precedenti la festa con una certa apprensione (non solo perché vegetariana) ma quando il giorno è arrivato mi sono fatta coraggio e, come mi ha consigliato mia sorella, ho contestualizzato evitando di giudicare.

La mattina gli uomini vanno alla moschea e quando rientrano sacrificano il montone, lo sbucciano con una pratica barbara ma efficace (per chi non può fare a meno dei dettagli macabri, funziona così: si tagliano le zampe dell’animale e si soffia nel buco. Così la pelle si solleva e la si può incidere per staccarla dalla carne) e lo consegnano alla cuciniera. 

Io mi aspettavo che l'aspetto sacrale/sacrificale fosse accentuato, invece tutto avviene velocemente, nel cortile e senza tante cerimonie; ho anche scoperto che, pur attenendosi alla tradizione, moltissimi non amano per niente dover sgozzare l’animale e ci sono spesso discussioni in famiglia in cui ci si rimbalza l’onore/orrore del taglio. 

Sempre nell’ottica del non giudicare, e nonostante la profonda gratitudine che devo alla famiglia che mi ha invitata, mi sono chiesta se, visto che non piace a nessuno sgozzare e smembrare un animale in cortile, non sarebbe ora di sostituire tutto 'sto cinema con qualcosa di più simbolico. Ma forse faccio colonialismo culturale.

Quando la bestia non è più di questo mondo e la capocucina la prende il carico, per un bel po’ si sentono dei suoni sordi di tac-tac-tac, zap-zap, tuch-tuch-tuch, scraatch: sono i vari pezzi di animale che vengono separati e resi cucinabili. Mi sono fermamente rifiutata di guardare, ma le orecchie non le puoi chiudere come gli occhi...

Dopo il brunch di montone e cipolle sono andata in cortile per lavarmi le mani e ho trovato la testa del montone in un secchio; è rimasta lì fino a notte, e ogni volta che dovevo passare di lì mi faceva un po’ meno impressione. Volevo parlarle, dirle che mi spiaceva, che io l’avevo mangiata solo per educazione. Mi hanno detto di prepararmi a trovarne molte di teste, in giro per la città, nei giorni dopo la festa. 

In Senegal ai primi di ottobre ci sono trenta gradi e il montone arrosto non è sorbetto al limone, quindi la cosa che cerchi a fine pasto è un posto ventilato dove poter negoziare con il tuo stomaco i criteri della digestione. Questo posto è invariabilmente il marciapiede davanti a casa: allunghi la stuoia e resti lì, con i vicini, i bambini dei vicini, gli amici dei vicini. 

Mi ero sempre chiesta come fosse possibile per gli africani dormire per strada, sul duro ed in mezzo alla gente, ora ho la risposta: sono gli enzimi rilasciati dal montone che fanno la magia. Altra domanda africana che in questo pomeriggio a livello strada mi sono posta è: ma loro stanno seduti per terra comodi perché hanno il didietro bello rotondo o l’evoluzione ha fatto si che sviluppassero le loro rotondità in virtù del fatto che stanno seduti per terra? Non ho trovato risposta ma il mio piccolo culetto piatto è pieno di lividi.

Stare seduti per terra a prendere un fresco che non c’era mi ha permesso di stare un intero pomeriggio fra donne a mettersi lo smalto, parlare di tutto e di niente, bere il tè e il latte cagliato e sonnecchiare, come una senegalese. È una fortuna immensa avere amici che ti accolgono e che condividono con te la propria famiglia, e se il prezzo da pagare è mangiare montone fino a scoppiare una volta all’anno, pazienza. Il montone si mangia per parecchi giorni dopo la festa invitando di nuovo amici e parenti, perché raramente ho visto un segenalese mangiare da solo. Anzi forse mai. Al villaggio - che poi vuol semplicemente dire fuori città, indipendentemente dalla distanza - i resti non mangiabili del montone tipo le ossa, gli zoccoli eccetera vengono sotterrati in una buca davanti a casa (e meno male che non è un paese soggetto ad inondazioni, questo) mentre in città, come effettivamente mi avevano avvertita, può succedere di trovare teste e pezzi di montone a lato del marciapiede, nella sabbia. Ne ho trovate alcune, non tante per la verità, ma la puzza è rimasta nell’aria per giorni.

Verso le 5 del pomeriggio sono stata svegliata dal piacevole torpore mentre dividevo la stuoia con un bimbo di tre anni dall’annuncio che era ora di mangiare. Senza appetito (ma senza storie) mi sono seduta intorno al nuovo piatto di montone e ho fatto del mio meglio per smontare quel blocco di ossa, grasso e carne. Il mio problema di tutti i giorni in Africa è che io non so mangiare con le mani: sono cresciuta in una famiglia dove l’unica cosa che non tocca una postata sono il pane e l’uva. Chiamatemi fighetta, non so cosa dirvi: io mi sforzo di mangiare con le mani, ma non ci riesco; e la ragione, che mi hanno più volte fatto rimarcare, è che io non mangio con le mani, io mangio con due dita per mano come se avessi delle chele! Per mangiare con le mani bisogna che il cibo diventi pongo e che venga premasticato da tutte le 5 dita e dal palmo; quando i miei commensali capiscono che sono impedita mi trattano come una bambina di 2 anni e mi fanno i bocconcini. Cosa che mi umilia, ma che è anche l’unico modo per me di onorare la cucina, quindi accetto il double standard.

Dopo il vero pasto nel pieno del pomeriggio i bambini si vestono eleganti (le bimbe a volte coi tacchi!) e vanno di casa in casa a chiedere l’obolo, cosa che li sovraeccita per cui per due ore si sentono gridolini e risate; anche se per dieci minuti non vedi un bambino, li senti sempre in sottofondo. Gli adulti restano in casa a donare l’obolo ai bambini degli altri e quando viene buio si vestono bene anche loro e le donne si truccano. È un peccato che questo accada quando è buio perché l’illuminazione pubblica non è il punto forte di Dakar e dintorni, quindi non si vede proprio una cippa: Ma se passa un’auto che le illumina coi fari, vedi che sono veramente belle, alcune sono in abito da gran soirée con lustrini e paillettes, a volte hanno delle gonne lunghe fino ai piedi talmente strette che non riescono a camminare e fanno dei passettini da donnina cinese coi piedi fasciati, ma sono una gioia per lo spirito, se arrivi ad acchiappare i riverberi delle paillettes nella notte. 


 



 

 

 

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Hanno collaborato a questo numero:

Nico Ivaldi

Alberto Cesare Ambesi
Gabriella Bernardi
Oscar Borgogno
Fabrizia Galvagno
Alberto Marzocchi - Giorgio Ruta
 

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