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La musica in Piemonte - 2

 

 

Appunti per una storia – Parte II


di Alberto Cesare Ambesi


Sono due i saggi letterari dello scorso secolo che offrono più di quanto promettano i rispettivi titoli, già di per sé eloquenti e indicativi: L’Amore e l’Occidente di Denis de Rougemont (1906-1985) e Il Manierismo nella Letteratura di Gustav René Hocke (1908-1985). Perché abbiamo voluto ricordare questi testi appassionati e appassionanti? Perché ambedue mostrano una una spiccata predilezione, che condividiamo con entusiasmo, per il mundus subterraneus della storia culturale europea e perché entro questo orizzonte, geografico e temporale, emergono fenomeni ed esperienze medievali ora affascinanti (poesia e musica provenzali, per esempio), ora raccapriccianti, come ha sottolineato Alessandra Leo nello scorso numero di marzo con l’articolo dedicato alle persecuzioni che l’Inquisizione inferse alle superstite cerchie catare del Chierese, nella seconda metà del XIV secolo.

Un dato di fatto, codesto, tratteggiato dall’autrice con sapiente sintesi e che ci conduce ad un basilare problema, ricorrente negli studi di storia della letteratura e di storia della musica medievali; problema – si noti bene - riassumibile nel dubbio che così si esprime: come è possibile immaginare che vi sia stata una connessione fra l’arte trobadorica, quasi sempre ricca di immagini amorose, e il rifiuto del mondo e delle sue apparenze, tipico dei Catari? Vero,verissimo, ma soltanto in apparenza, poiché se ripieghiamo con il pensiero dagli esordi del XIII secolo fino alla prima metà del XII, non possiamo ignorare la constatazione che in Provenza, Piemonte e Lombardia trovatori, menestrelli e catari erano vissuti fianco a fianco, pellegrini da un castello all’altro. 

Perciò, pensare che fra gli uni e gli altri non vi siano stati comuni modelli culturali appare quanto meno improbabile. La Dama del Desiderio inesausto e inappagato era la Donna terrena, non vi è dubbio, ma altresì specchio e proiezione della Santa Sapienza, ideale forma di luce dell’Io spirituale. E se qualcuno, a questo punto, volesse rilevare, magari con un sottinteso polemico, che in Dante affiorarono più volte analoghe allegorie, avremmo, da parte nostra, più di una ragione d’essergli riconoscenti, poiché con siffatta osservazione ci confermerebbe che le espressioni più alte della civiltà medievale, cattoliche o catare, condividevano la spiritualità della rinuncia, sia pure con modalità molto diverse, nonché la spiccata propensione a coltivare ideazioni artistiche, poetiche e musicali ricche di simbolici significati. 

È risaputo, per esempio, che al’inizio del XIV secolo lo strumentale Lamento di Tristano di autore ignoto era egualmente “popolare” tanto in chi ne interpretava il testo e la musica entro un orizzonte del tutto profano quanto fra coloro che ritenevano quel canto espressione di una tormentata solitudine interiore, come se l’autore avesse percepito d’aver perso ogni contatto con la propria anima, con il principio superiore che costituiva il suo Sé. Una duplicità di significati sorprendente o inverosimile? Tutt’altro. Si è certi, per esempio, che la melodia intonata da coloro che si recavano in devoto pellegrinaggio a Roma non era ignota agli spregiudicati clerici vagantes, ma nella versione pagana che recava il titolo O admirabilis Veneris idolum ed era caratterizzata da un testo che si prestava facilmente sia a licenziose intepretazioni sia a letture con implicazioni filosofiche. Non a caso, si potrà aggiungere a questo punto, sarà precisamente l’Età di Mezzo a trasmettere all’Umanesimo e al Rinascimento il sottile concetto che invitava riconoscere la stellata Venus Urania come di dissimile natura rispetto alla Venere terrestre o “vulgare”.

Da ciò la possibilità, anzi il dovere, di attribuire ad ogni stile e forma trovadorica peculiari caratteri, più o meno flessibili. Il più facile da definirsi, entro codesto scenario, il trobar plan (o leu, “leggero”), una modalità di scrittura poetica e di esecuzione musicale di limpida ispirazione e di carattere spesso lieto o scherzoso. Vi era poi il trobar rich, costituente un genere letterariamente più elaborato e che si potrebbe definire come un lontanto e indiretto modello dei lieder e delle romanze del nostro Ottocento. Infine, il trobar clus, “ermetico” nei contenuti e articolato con accenti che in buona parte derivavano dall’evoluzione della musica sacra, incluso il passaggio dalla monodia alla polifonia, a due, a tre e a quatro voci, gradatamente. 

Ma vi era e vi è dell’altro: da un lato, l’accavallarsi di ascendenze stilistiche diverse (provenzali, ma anche bizantine, siriache e irlandesi, tramite tortuose vie); dall’altro, il tramandarsi di una complessa concezione dell’arte musicale, avente per punti fermi il pensiero di Severino Boezio (470-524/26) e il duttile, intenso enciclopedismo di Cassiodoro (circa 485-583). Basti rammentare, in proposito, quanto dobbiamo al filosofo e ciò che la musicologia deve all’enciclopedista: nel primo caso, l’individuazione e ripartizione della musica in musica mundana, l’armonia che si rivela nel macrocosmo e nelle leggi celesti); musica humana, così come è virtualmente presente entro il microcosmo antropomorfico; musica instrumentalis, designante l’apprendimento e la pratica dell’esecuzione musicale (o anche esclusivamente vocale, in taluni casi, e a dispetto dell’aggettivo). 

Vezzolano - foto F. CaresioTradizioni, codeste, che favoriranno le più ardite speculazioni mistiche e/o matematiche. Ne aveva offerto adeguata anticipazione anche l’enciclopedista, quando aveva voluto soffermarsi sull’esistenza di tre particolari rami (o radici) della musica: la scientia harmonica, in realtà dedicata allo studio della nascita e fioritura della melodia; la scientia rhythmica, volta all’analisi delle modalità chiamate a sorreggere e “giustificare” il rapporto che può sussistere fra suono e parola; la scientia metrica, quale magistero nella tecnica di versificazione, affinché il canto risulti un naturale sbocco della poesia. 

Come non ammirare un simile pensiero, meno astratto di quanto si potrebbe supporre, quando si consideri che esso è stato riplasmato dal contemporaneo Paul Hindemith (1895-1963) con la creazione della sinfonia e dell’opera lirica Die Harmonie der Welt (“L’armonia del Mondo”: del 1951  la sinfonia, del 1956/57 l’opera lirica), ispirate dalla figura dell’astronomo neoplatonico Johannes Keplero (1571-1630)? 

Abbiamo divagato? Soltanto in apparenza, poiché, piuttosto di soffermarci su figure di cui risultano controvertibili o vaghi e il valore estetico e la presumibile piemontesità (cito alla rinfusa i primi nomi che mi vengono in mente: Nicolet de Turin, Peire Guilhem de Luserna e Uc de Saint Circ), ci è parso preferibile delineare taluni degli elementi di civiltà che accomunarono prima Piemonte e Provenza, poi gli Stati sabaudi (capitale Chambéry dal 1232 al 1562) e tutta l’Italia nord-occidentale. Ed è entro tale prospezione che dovranno essere riguardati due eventi molto, molto diversi: da un lato, l’inevitabile, drammatica interruzione dell’avventura rivoluzionaria dello spirituale Fra Dolcino; dall’altro il completamento, di poco anteriore, dell'abbazia del Vezzolano. Più a settentrione, intanto, Maestro Dietrich (1250-1310?) e Maestro Eckhart (1260-1327) preparavano, a modo loro, il futuro raccordo fra mistica, magia e filosofia naturale: teutonica e singolare ouverture all’umanesimo e rinascimento europeo.  

 

 

 

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Hanno collaborato a questo numero:

Nico Ivaldi

Alberto Cesare Ambesi
Lucilla Cremoni
Andrea Musazzo
Francesca Torregiani
Viviana Vicario
 

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