Alla ricerca del locus animae
di Marina Rota
Quale sarà “il centro di Torino”?
Sarà proprio quel rettangolo che richiede una consultazione a parte nelle tavole di Tuttocittà?
Per me, il vero centro di Torino è quel triangolo scaleno che ha ai suoi vertici piazza Maria Teresa, piazza Vittorio e piazza Castello, e il cui cuore pulsante corrisponde al cortile della mia vecchia casa sul quale, per vent’anni, il mio sguardo si è posato a scrutare l’arrivo di un amico, o a contemplare, incantato, la neve.
Il transfert che si crea col nostro habitat – sia esso Borgo Po o Porta Pila - è così potente da divenire parte di noi; da far sì che ci si trovi a disagio in qualunque altro quartiere, anche se più “prestigioso” (aggettivo caro alle agenzie immobiliari).
E cosi, dopo sei anni in una bella casa alla Crocetta, sorrido all’idea di tornare alla mia zona d’elezione. È rimasto d’altronde piuttosto freddo il mio rapporto con un quartiere sul quale il grand vieux Carlo Fruttero (spero di non offendere nessuno così come non mi offendevo io) mi rivolgeva la domanda rituale: “Ma lei, cara, abita ancora alla Crocetta? Non si è ancora suicidata, in quel cimitero di elefanti?”
Non voglio più aggirarmi fra corsi punteggiati da altezzosi ippocastani; fra isole pedonali, scenario di domeniche deprimenti, fra vie tanto eleganti quanto deserte, ma ritornare nel mio mondo colorato fatto di librerie aperte di domenica, del Regio, di caffé storici, del Valentino. Come sempre, rimando la decisione effettiva: in ogni cambiamento entrano in gioco le forze contrapposte del desiderio e della paura, e spesso, come ognuno ha sperimentato, ha la meglio la seconda.
Poi esplode un fatto eclatante; nel mio caso, l’arrivo di nuovi vicini maleducati e rumorosi che si installano nell’appartamento attiguo, con bambini urlanti fino alle tre della notte...
Si cambia!
Lo comunico un po' imbarazzata al padrone di casa, che da amico per la pelle si trasforma in una sorta di amante tradito e abbandonato che si appella anche al presunto segno di tacco sul palchetto per non restituirmi la cauzione; lo annuncio gioiosa agli amici che ricambiano con uno sguardo di compatimento, gli occhi rivolti al cielo: “Uh poverina, il trasloco!”, ricordandomi immancabilmente che questo evento segue il lutto e il divorzio nei motivi di stress. Esagerati. Che ci vorrà mai ad inscatolare tutto e a farlo trasportare nella casa di destinazione?
Già, la casa di destinazione. Visito una cinquantina di appartamenti, all’insegna di “silenzio-ultimo piano” (chi ha vissuto la tragedia di una vicina al piano superiore munita di tacco 12, sofferente di insonnia e di altrettanto ostinata mania di spostamento di mobilia pesantissima, mi potrà ben capire) e sfilano in rapida successione le seguenti mansarde:
- squillante, con un bagno viola e uno verde smeraldo in zona porta Susa (fuori triangolo magico);
- raffinata, in via della Rocca con proprietaria svizzera irremovibile su un canone astronomico ( se interessati, è ancora disponibile dopo 9 mesi);
- “comodissima” (così recitava il cartello) in via San Massimo, quinto piano senza ascensore;
- asettica, in via Garibaldi, tutta piastrellata in ceramica bianca da bagno e dotata del fascino di una sala operatoria;
- fragile, in via Accademia Albertina, con pareti vibranti al passaggio del 18 sui binari;
- bassa: un “attico” sui generis al primo piano con vista su cortile tristanzuolo, dove sembrano essersi riuniti i cassonetti di tutta Torino;
- la scatola: mansarda cosi soprannominata dai miei amici, con altezza massima pari alla mia;
- “allo stato originario”: ossia totalmente da ristrutturare a spese dell’inquilino, e quindi scartata ancorché vicina al mio amico di sempre Claudio Gorlier e da questi raccomandata contro ogni evidenza;
- ”la mansarda del falegname” come definita dai proprietari del palazzo di piazza Vittorio, ad alto rischio concerto/comizio di piazza, con camera da letto priva di finestre (ma come ci lavorava, il falegname?);
- inquietante: in via Bogino, sita a un piano mansarde così cupo da aspettarsi il balzo alle spalle, da un momento all’altro, dell'assassina di Profondo Rosso con tanto di ascia e mocassini maschili.
E infine una casa - La - casa: un affascinante interno di piazza Cavour, un locus animae dove abitò per molti anni un noto scrittore. Una sala col camino per ricevere gli amici, una stanza azzurra, uno studiolo per biblioteca e pianoforte, con la vista struggente sui glicini che si intrecciano per raggiungere il terrazzo sovrastante. Decido in pochi minuti, mi accordo per la data.
E chiamo la ditta di trasloco.
Le ditte si dividono in due categorie, come mi risulta chiaro in fase di preventivo: quelle a costi proibitivi che, in task force, aprono ogni pertugio, inscatolano anche le calze autoreggenti e ti fanno trovare tutto perfettamente sistemato nella casa nuova. E le ditte a costi accessibili, che ti riforniscono di scatoloni e nastro adesivo lasciando libero sfogo alla tua arte di arrangiarti. Vergognandomi come una ladra di mostrare ad estranei la profusione di carta che rischia di soffocarmi, scelgo la seconda soluzione, in modo da consumare il rito dello scarto nella penombra di decenti omertà.
Nelle serate del mese che dedico esclusivamente alla carta fuoriescono da ogni dove: documenti d’identità scaduti, bollette che risalgono a due case prima, le prime buste paga della mia carriera, biglietti di Natale scritti da bambina, vecchie struggenti lettere d’amore, e poi la mostruosa mole di Tuttolibri e domenicali del Sole24Ore. Con pazienza certosina ritaglio le recensioni che mi interessano; elenco le più recenti in un file per recuperarle in rete; altre ancora le destino con un sospiro all’imballaggio di oggetti fragili. Gli articoli ritagliati vanno negli scatoloni “Recensioni”; che si affiancano a quello di “Mie pubblicazioni” e “Autori”. Un altro scatolone riporta invece la dicitura “Ricette”, anche queste revisionate e scelte ad una ad una; come se in rete e in Tv non si parlasse ormai d’altro.
Organizzo quindi un team efficientissimo: io assemblo gli scatoloni acquisendo una velocità lodata anche dalla ditta; un amico si occupa di imballare quadri e stampe; una ragazza inscatola gli oggetti da cucina; mentre la Cicci, adorata zia ottantenne, inserisce i vestiti nelle scatole-armadio, facendo pietosamente sparire articoli quali una giarrettiera rosa regalatami in onore di Paolo Conte e un boa spelacchiato che risale a una festa di Carnevale di trent'anni fa.
Una volta pronti, gli scatoloni vengono impilati dalla ragazza, che rivela una forza sovrumana, in sei colonne ordinate nella sala (altri complimenti del titolare della ditta); ma nell’ultimo scatolone, ormai esausta, getto alla rinfusa tutta quella serie di oggetti misteriosi, scomposti, indefinibili, inutili, dei quali non riesco a disfarmi.
In pochi giorni riempiamo 80 scatole, numero che, mi fanno notare gli uomini della ditta (i quali talora passano da me per ammirare o criticare il lavoro fatto), rappresenta la media per una famiglia di quattro persone.
E a questo punto, ecco l’evento più temuto: l’Imprevisto.
Nel trambusto generale, alla vigilia del trasloco che si farà il giorno di San Giovanni, ricordo all’improvviso che dovrò presentare l’ultimo libro di un famoso glottologo il 25 giugno; e che avrei dovuto da tempo prenotarne le copie alla mia libreria, che infatti ormai ne è rimasta sprovvista (alla faccia dell’Italia che non legge).
Così, fra uno scatolone e l’altro, mi aggiro per tutte le librerie torinesi elemosinandone qualche copia; e, quando ormai penso di aver risolto la situazione, mi accorgo con raccapriccio che il facondo autore ha pubblicato nell’ultimo mese un’altra opera, successiva a quella in programma. Recupero il tempo perduto leggendo di notte i due libri, distesa sul lettuccio da campo incastonato fra le pile di scatoloni; di giorno, quando il lettuccio è occupato da masserizie, li leggo seduta sugli scatoloni.
Arriva infine il 24 giugno, giorno di caldo e di luce. Si parte alle 7.
Abbandono per sempre il prototipo di pc alto e pesante come me; un ventilatore guasto che non ho mai osato buttare; il vecchio albero di Natale (rimpiangendolo subito dopo).
Lascio il gentile custode e i vicini tutti amabili (ad eccezione degli urlatori); e lancio un’ultima occhiata alla sala con stucchi e fregi; ai muri impregnati di suoni e canzoni e voci care, ormai violate dagli schiamazzi dei vicini che anche più intollerabilmente rimbombano nelle stanze ormai vuote.
E vedo infine sfilare la teoria degli 80 scatoloni in cui ho racchiuso gli ultimi sei anni della mia vita.
Gli scatoloni occuperanno tutta la sala della casa nuova; e il fatto che il contenuto di un appartamento di ottanta metri quadri risulti strabordante per una casa di cento rappresenta un mistero che si potrebbe svelare solo con la fisica quantistica, ormai chiamata in causa per tutto l’inspiegabile.
Alla fine, quando il mio micio Elémire, candido nel suo trasportino rosso, fa il suo ingresso a lavori ultimati, e dimostra la sua approvazione vorticando frenetico come un elettrone da una stanza all’altra adagiandosi su ogni superficie, comprendo che tutta la fatica ha avuto un senso e il trasloco è ultimato.
Va bene: rimane ancora in un angolo quella scatola colma di oggetti inutili, un insulto alle regole del Feng Shui, secondo cui non si deve portare con noi in un luogo nuovo un oggetto che non utilizziamo tutti i giorni.
Mi rimprovero, e poi mi assolvo. Non siamo mica in Oriente.
E poi: se è vero che si devono accettare gli altri senza pretendere di cambiarli, perché non applicare questa saggia regola anche a se stessi?