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I barbieri di Torino

 

Monumento al tempo perduto


di Andrea Rocchi


Quando si andava dal barbiere non c’era fretta: si entrava, ci si accomodava in poltrona, e si passavano anche ore a spettegolare, a parlare di calcio e di donne. A Torino, passeggiando per la città, le botteghe degli artigiani del capello, tutte rigorosamente vuote e demodé, appaiono come un monumento al tempo perduto. 

Oggi la vecchia funzione del barbiere, un rito di benessere tutto maschile, sta vacillando sulla sottile linea che separa l’oblio dalla storia. 

Lo si capisce dalla nostalgia di Natale Andrianò, che ha aperto la sua bottega in via Verdi quasi cinquanta anni fa. Quando è arrivato a Torino nel 1963 la sua idea di mondo coincideva con la provincia di Reggio Calabria, ma di capelli e di barbe si intendeva, e con seicentomila lire ha inaugurato una bottega vicino all’università. Sotto la Mole, circolavano ancora le auto, via Verdi non era ancora la passerella sfavillante del cinema. Gli affari nei primi anni non andavano tanto bene: gli inquilini del vicino Casermone, l’alloggio popolare che sarebbe stato abbattuto di lì a poco, non erano clienti assidui. Poi è arrivato il Sessantotto e con i suoi vanitosi capelloni cotonati, laccati e squadrati.  

La febbre saliva il venerdì. Natale lavorava senza sosta fino a domenica pomeriggio, i ragazzi tornavano anche due volte nel weekend perché non potevano andare in giro spettinati. Dai professori agli studenti, tutti andavano a farsi la barba e a discutere della primavera di Praga o del quinto posto della Juve di Herrera. 

Oltre il Po c’è un salone con pareti azzurre gestite da un pacato signore con il camice dello stesso colore. Si chiama Sebastiano, che in via Monferrato ha aperto nel '60. La sua storia di migrante è comune a quella di quasi tutti i suoi colleghi: il mestiere si imparava al Sud ma a condizione di praticarlo altrove. 

Baffi ben limati, basetta altezza lobo e professionisti da intrattenere con confidenziale simpatia. L’occasione, tra la colazione e il dopo pranzo per leggere La Stampa e prendere coscienza degli impercettibili spostamenti di quartiere: tal coppia “si divideva”, il figlio del notaio che si sposava di nascosto...

Dal barbiere i quotidiani ci sono ancora, a differenza dei nuovi saloni in cui abbondano rotocalchi e patinati. Dei fatti del giorno amava parlare anche l’Avvocato con il suo coiffeur di fiducia Roberto Scrofani che si recava a Villa Frescot una volta a settimana. Di casa Agnelli ricorda i confronti affabili e amichevoli sulle cose di tutti i giorni, più sci e calcio che affari e Fiat. 

In piazza Madama Cristina i bambini trovavano Raffaele, riservato professionista di Avellino, da lui si sedevano su un seggiolone a forma di cavalluccio. Grazie al suo modo di fare mansueto e, distratti dal vociare rassicurante del vecchio mercato di San Salvario, i piccoli vincevano la loro proverbiale paura delle forbici. Scesi di sella reclamavano un dolcino per aver superato il timore del taglio senza troppi capricci.  

Forse anche Cesare Pavese tornava bambino durante i frequenti soggiorni nelle sue Langhe. Da Torino raggiungeva Santo Stefano Balbo in treno e, tra una passeggiata solitaria e l’attività di traduttore, si fermava da Stefano Ando che aveva il salone accanto alla Locanda dell’Angelo, quella de La luna e i falò. In un’intervista, il vecchio barbiere ha descritto lo scrittore come schivo e taciturno, “con la barba molto folta e dura come spine”. 

Mario Soldati invece avrebbe voluto fare da sé. Collezionava rasoi a mano libera ma nonostante la passione per le lame non era in grado di usarle per regolare i suoi baffi alla Pancho Villa. 

Poi sono arrivati gli anni ’80 e qualcosa si è incrinato. Su Lo specchio dei tempii lettori dicevano di aver sentito che si poteva prendere l’Aids anche dal dentista, anche col rasoio del barbiere. Passa molto tempo prima che questo mito venga sfatato. Cominciano così ad apparire i cartelli “non si effettua il servizio barba”. Un amaro paradosso, ma la favola non poteva comunque durare a lungo. Nelle case si stavano diffondendo i rasoi elettrici, quello che prima era un piacere comincia a diventare un lusso. 

Secondo Nino Noiosi la colpa del declino è dei giovani e della moda dei capelli rasati. 

Quando arrivò a Torino dalla Sicilia, acconciare i ragazzi era la sua specialità. I pugliesi lo chiamavano Tonino mentre per i piemontesi è sempre stato Antonio, com’è all’anagrafe di Enna. Nel 1961 ereditò la gestione, comprò muri, licenza e inaugurò “Il barbiere servizio accurato”, scalzando il precedente titolare. Senza voler mancare di rispetto, l’anziano Gaetano non ci sapeva proprio fare: era alla vecchia maniera. Tutti i giovani della Vanchiglia si mettevano in fila per farsi tagliare i capelli da Nino, mentre il padrone guardava l’ascesa della nuova generazione da dietro la cassa. Stare al passo con i tempi è però sempre più difficile, non basta più guardare le acconciature dei cantanti alla Tv per intercettare la moda del momento. 

Passando davanti al suo negozio in via Santa Giulia ormai è più facile vederlo a giocare a briscola con qualche amico del quartiere piuttosto che all’opera. Quando in bottega entra qualcuno posa le carte, accende la luce e lo invita ad accomodarsi su una delle poltrone in pelle marrone, le stesse di quando aprì. Se la moglie insiste, chiude bottega per un paio di giorni, ma il tempo migliore lo passa lì. A casa si viene sempre intrappolati in quelle commissioni che ti danno da fare le femmine, dice. Si allontana anche il ricordo di quando i figli erano piccoli e le mogli giovani, ora si parla per lo più di salute, e se a qualche vecchio cliente sono rimasti i capelli si lavora con passione e si trova un po' di compagnia. 

Quando gli si chiede se gli convenga ancora tenere aperta l’attività, lui risponde che aspetta la giusta offerta. Qualcuno che gli rimborsi l’avviamento che dovette versare al vecchio Gaetano. Quei 40 metri quadri in una zona che ormai è diventata centro, non possono che continuare a essere un salone, come tra l’altro sono sempre stati. Senza successori, Nino spera di poter insegnare il mestiere a un apprendista. Ne ha avuti tanti, ricorda, qualcuno taglia ancora i capelli, uno è tornato in Calabria e gestisce un’impresa di pompe funebri. Da un po' di anni, però, non si propone più nessuno. 

Nino continua ad aspettare perché può permetterselo, i suoi colleghi più giovani invece, che offrono il servizio anche alle signore, devono vedersela con la concorrenza dei cinesi. Gran lavoratori, come lo erano loro appena arrivati al Nord. Le loro necessità di migranti li spingevano ad adattarsi un po’ a tutto. Scagliolisti, manovali, elettricisti, idraulici: si è arrivati a Torino da lontano per lavorare, ora come allora, anche se il mondo è cambiato. Come si può parlare male dei cinesi, si chiede Nino, l’unico dubbio è come facciano a tenere aperto con i prezzi così bassi. I cinesi non chiudono mai, ribatte Raffaele, non hanno orari, sembra che non sentano la stanchezza, ma al contempo si perdono anche la parte più bella di questo mestiere. Si privano, ragiona, del piacere di farsi quattro chiacchiere. Ma quattro chiacchiere con chi? Con chi dovrebbero parlare se oggi non c’è più nessuno disposto ad ascoltare e raccontare, dice Sebastiano. Nell'epoca della fretta non perdere tempo è l'imperativo. Quando anche questo mestiere sparirà, si abbasseranno anche le serrande dell'antica bellezza. 


Questo articolo ha vinto il terzo premio alla VII edizione del Premio Piemonte Mese, Sezione Cultura, Storia e Ambiente

 

 

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Hanno collaborato a questo numero:

Nico Ivaldi

Luisa Calderaro
Edoardo Galliano
Andrea Rocchi
Marina Rota
Viviana Vicario

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