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Un invito a raccogliere i ricordi dei nostri vecchi

 

di Edoardo Galliano 

 


Salvo immersioni “paniche”nel mondo dei gadget tecnologici, chiunque sia abituato viaggiare con i mezzi pubblici si sarà fermato almeno per un attimo ad osservare il paesaggio, quello umano o naturale, al di là dei finestrini. Da uno di questi vetri, in una stazione ferroviaria come tante, si possono osservare segni antropomorfi quali disegni e scritte di ogni genere. Se da un certo punto di vista la cosa può dar fastidio a molti, soprattutto quando il valore artistico di ciò che viene osservato non è così elevato, bisogna anche considerare che ognuno di noi desidera lasciare un segno fruibile dai contemporanei o addirittura dai posteri.
Ci sono parole e rappresentazioni del passato che non si trovano sui muri, né sui testi degli storici e neppure sulla rete, ma provengono da qualche individuo anziano un po’ isolato verso cui magari proviamo anche affetto. Sappiate che a questo riguardo io ho intenzione di rivolgervi un invito di cui non vi rivelo ancora il contenuto nella speranza di intrattenervi nella lettura.

Il mio viaggio mi porta in una frazione di un paesino di Langa, su una collina coperta di filari dai colori affascinanti, tipici dell’autunno. Mi aspetta un uomo dai capelli bianchi, con il sorriso sul volto e la schiena un po’ curva. Dietro il fumo di una tazza di caffè riemergono ricordi d’infanzia, quel periodo della vita a cui tutti almeno una volta hanno desiderato tornare, ma l’infanzia che mi viene descritta è molto particolare, occupata da miti e storie locali, vissuta durante il periodo fascista in un luogo lontano dalla storia che conta.

L’esperienza alla scuola elementare era molto diversa da quella di un bambino negli anni Duemila; innanzitutto c’era un’invasione di retorica anche e soprattutto nell’insegnamento della storia. Ad esempio, l’episodio di un ragazzo genovese, Giovanni Battista Perasso detto Balilla, che aveva tirato un sasso agli austriaci, serviva ad esaltare il presunto valore della riscossa nazionale. Le maestre erano così indottrinate che una, nel tentativo di esaltare i valori fascisti, si era portata tre banane, a suo dire, dell’impero appena conquistato, e le aveva divise tra tutta la classe. Oggi per fortuna la propaganda politica ai bambini nelle scuole è ritenuta degna di rimprovero, ma allora non era così. Il fatto delle banane comunque fa sorridere, soprattutto se si pensa ad alcune delle nostre maestre costrette ad insistere per far consumare il pasto agli alunni con battute quali “mangia, perché i bambini dell’Africa muoiono di fame”.

Allora era richiesto un giuramento alla causa fascista in cui si proclamava un impegno totale, anche a costo del sangue, e si mistificava la realtà stigmatizzando le inique sanzioni. Per giustificare la politica coloniale del regime si diceva che l’Italia senza posto al sole era come una famiglia che possedeva una casa senza giardino. Al figlio, ovviamente, si dava nome Benito. 

L’uso di ritornelli era molto frequente, perché essendo molto orecchiabili si imprimevano facilmente nelle menti, proprio come avviene con le nostre pubblicità. “Città, bei palazzi divertimento, un filare della mia vigna vale più di un monumento”: con una frase del genere si indicava la vita di campagna come preferibile a quella di città. Questo in effetti aveva un senso, anche perché in quell’Italia i contadini non erano considerati una minaccia, dispersi com'erano nei campi, poco raggiunti da stimoli culturali alternativi a quelli imposti dal regime. Ma ognuno dovrebbe essere libero di amare i luoghi che preferisce per una scelta personale ed è difficile immaginare che un uomo abituato alle fatiche delle zappe non si lasci affascinare dalle bellezze e comodità della città, ma queste sono opinioni personali.

Uscendo dalla scuola, dopo il saluto al re e al duce si entrava in un mondo che manteneva una certa autonomia, anche perché là c’erano i miti del passato, quelli popolari che sfuggivano alla descrizione fascista del mondo. Le masche (altrove chiamate bazure) occupavano gli incubi di molti, un po’ come i mostri dei nostri film dell’orrore. Se ne parlava nelle veglie di fronte a una tazza di acqua ceppa (tiepida), la nostra tisana. In una storia si narra di una donna che, vistasi rifiutare un prestito, avrebbe inviato i suoi malefici verso un’intera famiglia: i bambini avrebbero pianto incessantemente, i bachi da seta avrebbero smesso di muoversi per il verso giusto e gli animali avrebbero emesso suoni laceranti; solo le minacce del capofamiglia alla donna avrebbero fatto tornare la situazione alla normalità. In un’altra storia si narra di un medico che aveva estratto due pallottole dal corpo di una donna, e di un suo paziente che sosteneva di aver sparato due colpi ad un maiale che stava devastando l’orto. 

A volte la nostra sensibilità fa a pugni con queste storie, a volte ne è divertita; comunque in quegli anni gli incubi erano segnati profondamente dalla presenza delle masche. Il confine tra storia e fantasia era così labile che il mio amico mi spiega come avesse capito che le masche non esistono: un giorno, mentre mungeva, aveva sentito un rumore al piano superiore. Forse erano le masche. Prese coraggio, salì le scale e scoprì che una gallina aveva fatto cadere un’assicella; da allora niente più paura delle masche.

A volte si usavano fatti di cronaca che amplificati servivano a spaventare i bambini. Le vicende di un uomo che aveva compiuto efferati delitti suonavano come monito a fare attenzione. Si diceva ironicamente:”Guarda che da quel cespuglio potrebbe spuntare…” .

La storia di una frana veramente accaduta serviva come invito alla solidarietà e generosità (valido, forse, in tutti i tempi): nel paese di fronte alla collina dove il nostro narratore abitava, là dove il sole al tramonto si rifletteva nei vetri del castello (così i vecchi sapevano che era ora del rosario nel mese di maggio), uno smottamento aveva creato una parete rocciosa ancora visibile oggi. Il mito ha la sua origine in questo evento; pare che una donna avesse chiesto ospitalità in ogni casa che si trovava in quella parte del paese che ora non c’è più e che tutti gliel’avessero rifiutata. Solo due anziani le avrebbero offerto una fetta di polenta e un posto per dormire. Soddisfatta dall’offerta di ospitalità la donna invitò la coppia ad andarsene, perché nella notte sarebbe avvenuto il fatto. Il mio amico, così istruito, attendeva un’anziana signora per aiutarla a portare le borse della spesa, guadagnandoci un pacchetto di caramelle della cui provenienza la madre dubitava.

Questa era la vita e la visione del mondo di quel periodo e il mio interlocutore per molti versi è critico verso una società in cui i genitori ti mandavano a lavorare come servo già da bambino e in cui si alzavano troppo spesso le mani; tuttavia questa è stata la sua infanzia.

Se vi capita di salire su di un treno sapendo che a pochi chilometri dal capolinea abita una persona anziana che vi sta particolarmente a cuore, andate a trovarla e ascoltatela, diffondete i suoi racconti prima che il tempo li seppellisca definitivamente. Io ho fatto così e ci terrei a venire a conoscenza di altre storie sconosciute. Questo è il mio invito.


Questo articolo ha ricevuto una menzione alla VII edizione del Premio Piemonte Mese, Sezione Cultura, Storia e Ambiente

 

 

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Hanno collaborato a questo numero:

Nico Ivaldi

Luisa Calderaro
Edoardo Galliano
Andrea Rocchi
Marina Rota
Viviana Vicario

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