Un reperto egittizzante dall’antica Roma a Torino
di Piervittorio Formichetti
La Mensa – o Tavola – Isiaca, conservata al Museo Egizio di Torino, è una lastra in bronzo alta circa 75 centimetri e larga circa 130, intarsiata con altri metalli, che presenta geroglifici e figure di divinità o sovrani egizi che eseguono gesti rituali. La figura femminile al centro, sotto una sorta di baldacchino – da alcuni chiamato impropriamente “cappella” – rappresenta Iside, importantissima dea del pantheon egizio, sorella e moglie del dio dell’aldilà Osiride, madre del dio Horus e divinità della Natura generatrice, simboleggiata nell’astronomia egizia dalla stella Sirio. A renderla l’unica figura identificabile della Mensa sono i suoi attributi iconografici tipici: il ramo di papiro tenuto come uno scettro nella mano (nel nostro caso, la destra) e il copricapo con il disco del Sole tra due corna di vacca, attributo della dea Hathor sovente fatto indossare dai pittori egizi anche a Iside per rafforzarne il simbolismo materno. Singolarmente, sulla Mensa Isiaca, Iside non tiene nell’altra mano l’ankh, o croce ansata, simbolo del soffio vitale, sovente impugnato dalle divinità egizie come una chiave dell’immortalità.
Tuttavia, i geroglifici e i personaggi della Mensa Isiaca non sono veramente egizi, bensì egittizzanti, cioè realizzati al di fuori della civiltà egizia, ma che vogliono riprodurne i caratteri tipici. La Mensa, infatti, fu realizzata in un luogo in cui si celebrava il culto di Iside nei dintorni di Roma, tra il I secolo avanti Cristo e il I secolo dopo Cristo.
La presenza a Roma di luoghi e oggetti egittizzanti è ben attestata soprattutto a partire dal regno dell’imperatore Caligola, che rese ufficiali i culti di Iside e di Serapide, dio greco-egizio simile a Zeus; ma templi dedicati a divinità egizie (quelli dedicati a Iside e Serapide si chiamavano rispettivamente isei e serapei), con statue ed altri oggetti rituali, erano presenti da almeno un secolo prima. A partire dal 59 avanti Cristo, per esempio, il Senato di Roma aveva emanato leggi repressive contro il culto di Iside perché temeva che esso soppiantasse la tradizionale religione civile; dunque questo culto importato aveva avuto in breve tempo molta presa sul popolo romano. Ottaviano Augusto, poi, aveva promosso la produzione di manufatti egittizzanti per celebrare la conquista dell’Egitto, e propagandare così la gloria della propria dinastia; la dea Iside rappresenta infatti anche la trasmissione dinastica del potere: il suo nome deriva dal termine egizio aset o eset, cioè “trono”.
La diffusione di tali oggetti si doveva anche al crescente collezionismo dei personaggi altolocati romani, tra i quali l’attrazione per i culti esotici divenne una vera e propria moda (così come era avvenuto secoli prima, dopo la conquista della Grecia). La Mensa Isiaca fu realizzata in uno di questi siti, probabilmente Iseo Campense, nell’area del Campo Marzio, che era il principale tempio di Iside a Roma, dove era chiamata Iside Campense.
Dal punto di vista della tecnica, la Mensa è considerata interessante perché è il risultato dell’impiego di più metalli, sia vili sia preziosi, a scopo artistico - oro, rame, argento, oro mescolato con rame – e quindi testimonia anche quale fosse il livello della metallurgia nel primo secolo dell’impero romano; in particolare il colore nero, solitamente ritenuto niello, sembra essere in realtà una lega di rame e stagno contenente una piccolissima quantità di oro o argento, ottenibile soltanto immergendo il manufatto in un acido organico. Secondo alcuni questa lega metallica potrebbe coincidere con il “bronzo corinzio” contenente oro e argento citato nei testi di Plinio il Vecchio e di Plutarco.
La Mensa riporterebbe anche la firma dell’autore, un certo Nilo o Philo, forse un romano di origini egizie (con uno pseudonimo egittizzante?), scritto in un cartiglio tra le zampe di uno scarabeo con testa umana.
Della Mensa Isiaca, però, non si hanno notizie storiche fino al XVI secolo, perciò si presume che sia stata trovata come un vero reperto archeologico soltanto nel ‘500. Il primo a impossessarsene fu il cardinale Pietro Bembo, celebre letterato veneziano, che la acquistò da un fabbro di Bologna il quale l’aveva avuta, chissà come, nell’annus horribilis 1527, dopo il famoso sacco di Roma da parte dei Lanzichenecchi. Secondo un’altra versione, Bembo la ricevette in dono dal papa Paolo III Farnese. Per questo, la Mensa Isiaca è conosciuta anche come Tavola Bembina.
Quando Bembo morì, la Mensa venne ereditata dal figlio Torquato che nel 1592, a sua volta anziano, la vendette a Vincenzo Gonzaga duca di Mantova; questi la collocò nella Pinacoteca Ducale, dove rimase fino a poco prima del 1630, l’anno del saccheggio di Mantova da parte dei tedeschi (ricordato anche nei Promessi sposi). Nel 1628 la Mensa fu acquistata dal duca di Savoia Carlo Emanuele I.
Nel XVI secolo la Mensa poté essere vista e studiata da eruditi dell’epoca: il primo a riprodurla era stato l’incisore e numismatico di Parma Enea Vico; il padovano Lorenzo Pignoria la descrisse per primo in un’opera, pubblicata a Venezia nel 1605 su suggerimento dell’accademico dei Lincei Marco Valsero e dedicata al cardinale Cesare Baronio; i suoi simboli furono studiati anche dal celebre “tuttologo” gesuita Athanasius Kircher, che ne parlò in tre delle sue opere: Obeliscus Pamphilius del 1650, Oedipus Aegyptiacus del 1654 e Obeliscus Alexandrinus (poiché studiato durante il pontificato di papa Alessandro VII Chigi) del 1666.
La Mensa Isiaca si sarebbe dunque trovata a Torino almeno dal 1630; qui, nel 1711, fu esaminata nella Biblioteca Reale dal marchese Scipione Maffei, che ne scrisse al poeta veneto Apostolo Zeno. Nel 1720 la Mensa compare tra le collezioni dei Savoia; nel 1752 era custodita ancora nella Biblioteca Reale. In questi anni il pittore Giuseppe Guerra, allievo di Francesco Solimena, per i soggetti dei suoi falsi dipinti antichi si servì proprio delle figure della Mensa Isiaca copiandole dai disegni fatti da padre Kircher un secolo prima; è verosimile infatti che nella collezione di mirabilia di Kircher a Roma fossero presenti almeno due riproduzioni grafiche (disegni o stampe) della Mensa. Successivamente, dalla Biblioteca Reale la Mensa fu spostata negli archivi dei Savoia: il 21 maggio 1775 il re Vittorio Amedeo III inviò al regio archivista e consigliere Benedetto Ambel l’ordine di far consegnare la “Tavola Isiaca che si conserva in questi Regi Archivii di corte” al Museo di Antichità, all’epoca di pertinenza dell’Università degli Studi.
Nel febbraio 1799 il Governo provvisorio del Piemonte fu costretto a consegnarla al Direttorio della Francia rivoluzionaria; dopo un quindicennio, crollato l’impero napoleonico, la Mensa fu restituita all’Italia e collocata nel Museo Egizio di Torino, dove nel 1824 fu esaminata da Jean François Champollion, iniziatore della traduzione dei geroglifici.
Nel 1832, la Mensa Isiaca fu esposta per la prima volta al pubblico nel Museo Egizio di Torino, dove è custodita ancora oggi.
Questo articolo ha ricevuto una menzione alla VII edizione del Premio Piemonte Mese, Sezione Cultura, Storia e Ambiente