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25 anni di Persiana Jones

 

 

Beppe Carruozzo racconta il quarto di secolo e i mille e più concerti della band canavesana


Intervista di Nico Ivaldi


Tranquilli, ragazzi, i Persiana Jones esistono ancora e suonano con noi. E se da qualche tempo non li vedete più spesso in giro come prima, è solo perché anche loro devono fare i conti con la crisi che rosicchia i già magri incassi, con la stanchezza di una vita divisa fra il lavoro di giorno e la musica di sera e con famiglie che vorrebbero vedere di più a casa i mariti e i padri.

Voi pensate ciò che volete, intanto con questo sono venticinque gli anni di onorata carriera per la ska-punk band canavesana - oltre mille concerti all’attivo - una delle prime (e poche) a cantare in italiano, negli anni Ottanta lingua inusuale per i gruppi alternativi nostrani legati all’inglese.

Un quarto di secolo che pare non aver fiaccato l’entusiasmo di Beppe Carruozzo, tra i fondatori dei Persiana Jones, insieme con il fratello Silvio e Gianni Rossebastiano.

Non molliamo, anche se è sempre più dura” spiega Carruozzo, cinquantaquattro anni, informatico di professione, bassista e voce del gruppo. “L’anno scorso abbiamo fatto solo cinque date; per noi sono briciole, se si pensa che fino ai mille concerti avevamo tenuto una media di sessanta date l’anno. Poi, a causa della crisi, ci siamo ritrovati a tagliare di punto in bianco le nostre uscite. Per fortuna quest’anno nei concerti abbiamo avuto un sacco di ritorni di ex ragazzi che venivano a sentirci a fine anni Novanta, inizio Duemola: sono tornati, chi con la famiglia, chi con i figli. Per noi è stata una bella botta di vita, un grande incoraggiamento a continuare”.

Chi sono gli altri irriducibili della band?

Bob Marini (chitarra), Adi (batteria), Willy Whito (chitarra e cori) Dj Ciaffo (scratch & noise), Yomar Cardoso (trombone, cori), Janier Isusi (tromba, cori). Oltre a mio fratello Silvio, solo voce”.

E i pezzi chi li scrive?

Solitamente le canzoni vengono scritte da Bob, Silvio e dal sottoscritto, poi però c’è il contributo di tutta la band quando si tratta di realizzarle e arrangiarle”.

Per festeggiare i vostri primi venticinque anni vi siete anche regalati un nuovo disco.

Tutto è successo grazie a fattori concomitanti, l’arrivo del nuovo batterista e il ritorno in pianta stabile del trombonista cubano, che si era allontanato. Da parte nostra ci abbiamo messo più convinzione e così sono usciti venticinque nuovi pezzi”.

Ma il vero regalo è stato il concerto londinese dello scorso maggio…

“Era la prima volta che suonavamo a Londra, una grande soddisfazione”.

Quanta acqua è passata sotto i ponti dal vostro ultimo disco, Just for fun, del 2007, che alimentò la notizia del vostro scioglimento.

Quando annunciammo che quello sarebbe stato il nostro ultimo cd, i media lo interpretarono come il preavviso della fine della band. In realtà la nostra provocazione aveva un altro significato: per noi quel tipo di supporto non aveva più futuro e ne siamo ancor più convinti oggi. Non a caso la nostra raccolta del 2010 era diretta solo al mercato digitale, anche se è stata stampata in edizione limitata per i nostri fans e i collezionisti”.

Riavvolgiamo per un attimo il nastro della storia. È il 1988 e a Rivarolo Canavese, dove vivono i Carruozzo, nascono i Persiana Jones e le Tapparelle Maledette (nome che parodiava il film con Harrison Ford, Indiana Jones e il tempio maledetto, poi abbreviato per motivi che spiegheremo più avanti). Intanto c’è fermento anche nella vicina Torino, la cui scena musicale si arricchisce di formazioni destinate a successi futuri: Linea 77, Africa Unite, Statuto, Mau Mau, Fratelli di Soledad, e infine i Subsonica.

Tu suonavi già?

Sì, suonavo il basso in un gruppo formato da amici che si chiamava “Winding Logs” e intanto facevo il dj nelle radio private. Ho iniziato come autodidatta, non tanto per passione per quello strumento ma perché pensavo fosse il più semplice da suonare: previsione sbagliata in pieno”.

Il vostro repertorio?

Facevamo cover dei 99, dei Cult, dei Sex Pistols, dei Clash, dei Ramones, tutto il meglio del punk. Qualche anno dopo, sciolti i “Winding Logs”, siamo partiti con i Persiana Jones, dieci musicisti folli il cui primo album, Impazzire, in pochi mesi brucia le tremila copie di tiratura, viene recensito sui principali giornali musicali italiani ed europei e spiana la strada per una frenetica attività live che rimarrà sempre il nostro tratto saliente”.

Non pensavate che sareste potuti diventare musicisti di professione?

No, siamo sempre stati con i piedi per terra. Abbiamo sempre concepito la musica come un modo di evadere, come la possibilità di uscire dalla nostra vita normale e vedere palchi nuovi, gente nuova e situazioni differenti. Ed in effetti così è stato. In venticinque anni abbiamo avuto l’opportunità di girare l’Italia in lungo e in largo e di esibirci anche all’estero confrontandoci con mondi differenti dal nostro, scoprendo cosa succedeva in altre realtà, come vivevano e come si divertivano le altre persone”.

Potenza live, ska, ritmi latini: questo il marchio di fabbrica dei primi Persiana Jones, i quali, grazie al primo lavoro autoprodotto, Siamo circondati, del 1995, entrano in compilation internazionali di rilievo e iniziano a fare le prime puntate all’estero. 

Secondo te perché avete avuto - e forse avete ancora - più seguito fuori dai confini italiani?

Sembra una battuta, ma quel nome “Tapparelle Maledette” ci ha creato più fastidi che altro. La gente era prevenuta, pensava raccontassimo barzellette. Addirittura al primo Festival di Sanscemo, nel ’90 a Torino, al Palasport, ribattezzato per l’occasione Palacavolfiori, fummo oggetto di battute da parte del presentatore Andy Luotto, che sperava di coinvolgerci nel clima demenziale che caratterizzava la rassegna. Volavano ortaggi, gente che urlava “scemi, scemi”, finché non cacciai malamente dal palco Andy Luotto e cominciammo a suonare la nostra canzone “Monotona”. E gli applausi, non i fischi, non tardarono ad arrivare”.

Oltreconfine ovviamente non esisteva questa specie di pregiudizio.

Assolutamente no, ma se per questo nemmeno da noi, fatta eccezione per Sanscemo. Comunque con Brivido Caldo, realizzato nel ’97 con la nostra etichetta indipendente Uaz Records, facciamo centoventi date, tra Germania, Francia, Spagna. Proprio dalla Spagna, anzi dalla Catalogna, partì il nostro fortunato tour”.

Non a caso, il vostro disco successivo, Puerto Hurraco (curiosità: nel disco era contenuto il brano “Tremarella”, cover dell’omonimo singolo del 1964 di Edoardo Vianello) l’avete dedicato al locale di Barcellona in cui vi siete esibiti più di una volta. “Voglio andare al Puerto Hurraco / Una birra con te / Cuba libre con lei / La mia notte al Puerto Hurraco / Il fumo è denso ma non disturba più”.

È stata un’esperienza fondamentale nella nostra carriera: musica ventiquattr’ore su ventiquattro, gente alternativa, i migliori calamari della città, il miglior bianco della città. Eh sì, ce la siamo veramente spassata. Anche se il concerto più strano l’abbiamo fatto da Manolo, in un centro sociale, con una situazione tecnica disastrosa e soltanto ottanta persone, stipate negli spazi più inverosimili, a cantare con noi. La sera dopo, invece, eccoci in un Palasport da cinquemila spettatori, insieme con altri gruppi che si davano il cambio. Una volta invece ci è toccato di suonare alle sei del mattino, d’inverno a Castellon de la Plana, davanti a duemila persone con un tasso alcolico altissimo”.

Non cantate in inglese ma in spagnolo sì: una scelta solo musicale o anche legata al fatto che vi siete esibiti spesso nella penisola iberica?

Entrambe le cose. Ci siamo ancora di più avvicinato allo spagnolo da quando nella nostra formazione sono entrati due musicisti cubani. In spagnolo abbiamo rifatto Livin’ La Vida Loca di Ricky Martin perché ci diverte fare cover, poi non è male, era un pezzo che ci piaceva. Allo stesso modo tempo fa abbiamo rifatto la colonna sonora della soap opera Beautiful! La cosa migliore è comunque cantare in italiano, solo così riesci a trasmettere immediatamente le tue sensazioni alle persone, solo così sei vero al 100%. La prova l’abbiamo avuta durante i nostri concerti in giro per l’Europa sentendo le persone cantare in italiano e questo ci ha fatto un enorme piacere”.

Comunque anche in Italia, ovunque grandi accoglienze e significativo successo di critica. I Persiana Jones bucano il palco, possiedono una carica irresistibile e sanno captare i gusti del pubblico. Partecipano a rassegne importanti come “Goa Boa” di Genova, “Extrafestival” a Torino, “Milano suona”, alle feste del 1° maggio. A Bologna altro bagno di folla al festival ”Independent Days”, con Manu Chao, Muse, Ska-p, Mad Caddies.

Ma è sempre “fuori” che arrivano le più grandi soddisfazioni.

Nel 2000 facciamo la conoscenza con un aviere americano di stanza nella base Nato di Aviano, un tizio intrallazzato con i promoter di mezzo mondo, che ci aveva visti suonare in giro. Soprattutto conosceva bene il manager dei Polemic, la ska-band più popolare in Slovacchia. E così partimmo per quella giovane repubblica che nemmeno sapevamo dove si trovasse”.

Fu una tournée trionfale, che portò i Persiana Jones a suonare - primo gruppo italiano nella storia – al Roxy di Praga, un locale alternativo nella Piazza Vecchia della città. (“Dopo di noi si esibì Eros Ramazzotti” sussurra Beppe Carruozzo, con malcelato orgoglio.) 

Nella Repubblica Ceca la gente aveva bisogno di divertimento dopo gli anni della dittatura. Ce ne accorgemmo quando suonammo in una piccola località al confine con la Polonia: eravamo in una specie di grande cinema all’aperto davanti a uno schermo alto trenta metri in cemento armato. Fino a pochissimo tempo prima, il regime teneva lì le sue adunate; adesso quell’arena era uno spazio di grande libertà”.

Voi di libertà ve ne intendente: ma quanto costa l’indipendenza dalle major?

"Tanto. Significa votarsi alla fame soprattutto in tempo di crisi. Il sessanta per cento dei guadagni se ne va in tasse e girare con i furgoni è diventato proibitivo, sia per l’affitto dei mezzi sia per le spese di gasolio. Almeno un tempo ti potevi salvare con la vendita dei dischi, sempre che la distribuzione si desse da fare. Oggi se ti salvi le spese puoi già ritenerti soddisfatto”.

Ma nemmeno le difficoltà economiche vi faranno dire basta dopo un quarto di secolo..

“Beh, quel giorno dovrà pure arrivare. Per il momento, visto che non abbiamo un contratto firmato, né pressioni di alcun tipo e semplicemente amiamo suonare quello che ci piace, bene finché abbiamo persone che vengono ai nostri concerti, finché le persone si divertono, ci scrivono, ci cercano e ci chiedono di suonare, vuol dire che comunque il gruppo suscita interesse e che non è ancora arrivata l’ora di abbassare la saracinesca”.

E dopo che farà Beppe Carruozzo?

E chi lo sa. Forse si metterà a fare le statuine del presepio, boh”.












 

 

 

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Hanno collaborato a questo numero:

Nico Ivaldi

Andrea Ciattaglia
Eleonora Chiais
Jessica Pasqualon
Redazione Piemonte Mese
 

 

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