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Angelo Puglisi. Non ci sono più i bar di una volta...

 

 

 

... e nemmeno Torino è più la stessa 


Intervista di Nico Ivaldi


Angelo Puglisi. Foto di Vincenzo RedaNon ci sono più i bar di una volta, e veramente nemmeno Torino è più la stessa” dice Angelo Puglisi, sorseggiando orzo in un bar affacciato sulla splendida - ma semivuota - piazza Savoia.

Parole che suonano come un de profundis per una città che, nonostante l’aumento del turismo, mostra qua e là i segni di un degrado di cui le strade piene di buche, nel centro come in periferia, sono il segno, ahinoi, più evidente.

Eppure nessuno meglio di Puglisi, settant’anni, origini siciliane (Caltanissetta), gestore di alcuni dei più prestigiosi locali torinesi a cavallo tra gli anni Settanta e Ottanta, è in grado di spiegarci l’ascesa e il declino dei bar, una delle istituzioni storiche della città, oltre che termometro dei cambiamenti sociali e di costume della stessa Torino.

Ho cominciato a fare questo lavoro a dieci anni, in Sicilia. Giravo nei mercato generali con un vassoio, trenta tazzine e due thermos di caffè. Io però mettevo più acqua nei thermos, così tiravo su trentacinque caffè e guadagnavo qualche lira in più”.

Sette anni dopo, Angelo Puglisi è a Torino. Tante speranze riposte dentro la classica valigia di cartone. La sua famiglia prende in affitto una casa in via Porte Palatine. Per sei mesi tocca a lui e ai fratelli mandare avanti la baracca, poiché il padre, grande invalido, è in attesa della pensione. Angelo lavora in una serigrafia.

Ma non era quello che volevo fare. E così, qualche mese dopo, eccomi allo Snack Bar di via Po, una tavola calda frequentata da pittori e artisti. Diciotto ore al giorno filate, e qualche volta si lavorava pure di notte: era il 1961, a Torino arrivavano molti turisti. Il primo mese porto a casa trentamila lire, quasi il doppio rispetto a quanto guadagnavo nella serigrafia, senza contare le mance. Mi nota il proprietario del bar Norman e quando mi offre di lavorare con lui, non ci penso un attimo”.

Smoking e sorriso stampato sulle labbra, inappuntabile come tutto il personale di uno dei locali storici della città (qui venne fondato il Torino, quando il Norman era ancora la birreria Voigt), il giovane Angelo, nei sette anni che vi lavorerà, vedrà passare tutta la Torino che conta: politici, industriali, calciatori, soubrettes.

Guadagnavo come un vicedirettore di banca. E arrotondavo con le mance dei clienti della sala giochi, pur che gli lasciassi fare ancora un giro prima della chiusura. Poi, una brutta ernia inguinale mi costrinse a lasciare il lavoro”.

Per i bar, e non solo per loro, gli anni Sessanta sono anni di rivendicazioni. Angelo Puglisi - soprannominato “Spugnetta” - è tra i protagonisti della clamorosa serrata che vedrà i più prestigiosi locali del centro chiusi per tre giorni consecutivi. Non era mai accaduto prima. Che cos’era successo?

All’epoca non esistevano orari di apertura né di chiusura e per noi lavoratori erano ritmi massacranti. Così, spalleggiati dal sindacato, ottenemmo la regolamentazione dell’orario e un miglioramento delle condizioni salariali. Fu una vittoria su tutta la linea”.

Terminata l’epoca del Norman, nel 1970 Angelo Puglisi si trasferisce al Gran Bar, a fianco della chiesa della Gran Madre, uno dei locali frequentati dalla Torino bene, tra i primi a Torino ad aprire un déhor.

Andavamo avanti e indietro a servire whisky e champagne, Cutty Sark e Glen Grant scorrevano a fiumi. Auto sportive e belle donne. Tuttavia, nonostante le apparenze, non guadagnavo quello che avrei voluto. Ero ancora acciaccato e deluso, inoltre la mia famiglia cresceva, mi era nata la seconda figlia. Così accettai di andare a lavorare in un piccolo bar vicino al cinema Reposi, ma durò poco, sei mesi”.

Angelo, in quei momenti non ha pensato di mollare?

“E per fare cosa? Il mio lavoro è sempre stato quello, non avrei potuto fare altro. Ma ero ottimista e, dopo una breve parentesi alla pasticceria Dezzutto, riesco ad acquistare il mio primo locale, il bar Bava, vicino a corso Francia. Quando metto piede la prima volta, era in condizioni pietose. Poco per volta lo rimetto a posto e grazie a un amico che mi dirotta la clientela di Dezzutto - chiuso al lunedì - e agli ottimi pasti che preparava mia moglie, il mio bar acquista rapidamente un’ottima fama. Ma è un brutto momento per Torino, sono gli anni del terrorismo e degli scontri fra rossi e nero e la zona dove lavoravo era spesso al centro di tafferugli. Un giorno sì e uno no dovevo abbassare la serrande. Insomma, troppi pericoli. Meglio cambiare aria”.

Così Puglisi rifà le valige e si sposta vicino alla Camera di Commercio, bar Eden.

C’era un banco lungo tre metri e mezzo. Sfornavamo panini a ripetizione. Clientela di classe. Sette anni di duro lavoro ma anche di grandi soddisfazioni. Compro i muri, ristrutturo il bar, acquisto una cantina-magazzino”.

Per l’ex ragazzino che vendeva caffè ai mercati generali è il momento giusto di spiccare il grande salto. 

Rilevo alcune quote della pasticceria Dezzutto e rientro da titolare nel locale in cui ero uscito da dipendente. Curioso, no? È il 1981. Quando rivendo le mie quote, il personale è cresciuto: da quindici, i dipendenti sono diventati trentatré, la pasticceria è frequentata da una clientela medio-alta e i guadagni sono ottimi…”

La situazione ideale per rilassarsi…

Niente affatto” dice Angelo Puglisi accalorandosi e continuando a gesticolare con le mani. “Mi ero messo in testa di rilevare il Querio, uno dei locali storici di Torino, fondato nel 1858, prima ancora che l’Italia fosse unita. L’impatto è terribile: le antiche attrezzature sono piene di polvere e ragnatele e il mio primo impulso è piuttosto di aprire un museo. Ma poi prevale l’imprenditore che è in me. E Querio ritorna in auge”

Impossibile non mettervi piede, per chiunque passi davanti a quelle vetrine colme di ogni bontà. Ma la tentazione è forte anche per i militari della vicina caserma Cernaia, che caricano camionate di ogni ben di dio ogni volta che c’è un giuramento o qualche inaugurazione. Lo è per i golosi di cioccolato, che solo qui possono trovare i gianduiotti fatti a mano secondo la vecchia ricetta, tagliati con il coltello, incartati uno per uno; mai due cioccolatini uguali, solo per veri intenditori. E lo è per gli amanti degli stuzzichini, che impazziscono per il pane di sesamo appena sfornato e ricoperto di fette di speck o di lardo, o per i soupir, o sospiri, pasta fatta in una scodellina di pastafrolla e riempita di panna e con sopra una colata di cioccolata.

Da Querio ho inventato l’impossibile” dice Puglisi, sfoderando legittimo orgoglio. “Abbiamo tirato fuori il grissino di cioccolato, i primi panettoni decorati a mano, la piramide di tramezzini, le cosiddette “pallottole di Pietro Micca”, cioccolatini ripieni a scelta di brandy o grand marnier o cognac. Ci tengo a dire che tutto veniva prodotto in casa, grazie anche a collaboratori molto preparati”.

Sono stati quindici anni di lavoro “matto e disperatissimo”. Nel frattempo, Puglisi diventa anche consigliere dell’Epat, l’associazione di categoria dei pubblici esercizi. Poi, una doppia mazzata lo costringe a rivedere i suoi progetti: dapprima la salute lo richiama a più tranquilli stili di vita e infine anche la seconda figlia, come già era successo con la prima, abbandona l’attività paterna e sceglie un’altra strada.

Fu un colpo da ko. Ero ormai convinto che almeno Ombretta, che all’epoca aveva trent’anni, avrebbe proseguito con questo lavoro. E invece mi confessò che non se la sentiva più di fare la vita di sacrifici che avevamo fatto sua madre e io. E scelse un impiego del quale non si è mai pentita. Ho lasciato Querio il 4 aprile del 2000, due mesi dopo ero in una clinica a curarmi per la depressione”.

Ma Puglisi non è uomo da starsene con le mani in mano, e così tre anni dopo ritorna al Norman, anche se come consulente. Il giorno della riapertura dello storico locale caduto in disgrazia, c’è tutta la Torino che conta. Tivù, radio, giornali. Al buffet non mancavano assessori, calciatori, generali.

Perché non lo comprò?

Perché costava una follia, miliardi. E io non li avevo, anche se la voglia di fare non mi mancava”.

Angelo Puglisi. Foto di Vincenzo RedaSignor Puglisi, si rimetterebbe in pista, oggi?

No, a parte l’età e la mia salute malferma, non lo farei perché nel mio mondo è cambiato tutto, soprattutto per i locali del centro cittadino. Paradossalmente, l’offerta è migliore in periferia o nei quartieri semicentrali: niente strisce blu, affitti più ragionevoli, anche se ti devi accontentare di baristi senza divisa. Torino ha perso tantissimo, sotto questo punto di vista, anche perché è stato rivoluzionato l’arredamento di locali storici che per la città significavano un marchio”.

E poi?

Poi trovo che oggi manchi la professionalità, anche se non dappertutto, è chiaro. Questo è un mestiere che si impara soprattutto lavorando a stretto contatto con gente esperta e non frequentando laboratori e corsi di una settimana che costano un sacco di euro e ti costringono a chiudere il locale o, se hai qualcuno di fiducia, a farti sostituire. Tutto questo non ha senso”.

Non è che la gente ha perso l’abitudine di frequentare i bar?

Certo. E la colpa è anche di chi ha introdotto negli uffici le macchinette con le cialde, che non invogliano gli impiegati a uscire per andare al bar”.

Signor Puglisi, nel suo lavoro non si è mai fatto mancare nulla. Mai pensato di andare all’estero?

No, mai, questa è la mia terra, qui c’è la mia famiglia, le mie radici sono qui. E resto convinto che l’Italia è un Paese con molte potenzialità, che non sfrutta come dovrebbe”.

Angelo Puglisi termina il suo orzo, ormai freddo, mentre l’autore di questa intervista vuota il suo Cabernet. Puglisi guarda il calice di vino, lo prende in mano e fa una smorfia col naso.

Vede, nemmeno i bicchieri sono più quelli di una volta…”



Le foto di Angelo Puglisi sono di Vincenzo Reda

 

 

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 Hanno collaborato a questo numero:

Nico Ivaldi

Domenico Agasso
Raffaella Bucci
Federico Callegaro
Emanuele Franzoso
Alberto Marzocchi - Giorgio Ruta

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