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Dall'altra parte

 

Da professionista della comunicazione a cooperante nei Paesi più poveri del mondo. Edoardo Tagliani ha fatto la sua scelta


intervista di Nico Ivaldi


Da apprezzato professionista della comunicazione a cooperante in alcuni dei Paesi più poveri del mondo (soprattutto in Africa: Congo, Burundi, Rwanda, Repubblica Centrafricana): questo il viaggio negli orrori del Quarto Mondo compiuto dal trentanovennebiellese Edoardo Tagliani.
Oggi Tagliani continua a prestare la sua opera nella dimenticata e non meno inquieta Haiti e mantiene il cordone ombelicale con l’Italia attraverso un seguitissimo blog, la collaborazione con testate giornalistiche e una presenza discreta, ma comunque attiva, sui social network.
Edoardo, perché questa scelta così radicale di cambiare vita? È maturata all’improvviso o era già un tuo desiderio?
Ho conosciuto il mondo della cooperazione perché ne ho scritto. Ero da “questa parte della barricata”. Più approfondivo la conoscenza dei meccanismi dell’aiuto umanitario, più mi sarebbe piaciuto fare il salto: andare dall’altra parte. Del mondo e della barricata".Perché sei finito proprio in Congo?Avevo appena lasciato gli uffici stampa legati alla politica. Stavo negoziando un contratto nel privato. Marco Perini, amico fraterno ed ex giornalista che già da anni lavorava in Rwanda per una Ong italiana, tornò a casa per Natale. Gli dissi di aver abbandonato il mio incarico. La buttò lì: “Cerchiamo gente in Congo. Perché non parti, visto che ci pensi da tempo?”. Accettai. Si trattava di gestire un progetto di sicurezza alimentare (coltivazioni agricole e distribuzioni di cibo) in zona di conflitto, sotto la supervisione di una persona che, ancora oggi, considero il mio mentore: Marino Contiero. Un’esperienza breve, di sei mesi. Sono passati dieci anni”.Com’era la vita da quelle parti?
Niente che si possa raccontare con efficacia a chi vive in Italia. La foresta, già di per sé, è un contesto unico. Se aggiungi una guerra che dura da quindici anni, piombi ai confini della realtà. Niente comunicazioni, niente elettricità, acqua potabile centellinata, trasporti da film comico (si raggiungeva il villaggio su un biplano russo del ’40, atterrando su una pista in terra). Gente che scappa e muore. Di fame, stenti, malaria, colera. L’Italia, dopo poche settimane, sembra qualcosa che non esiste”.
La tua famiglia come l’ha presa?
Sono figlio unico e i miei genitori, già anziani, sono apprensivi di natura. Avrebbero preferito scelte diverse. Con grande sacrificio, hanno accettato. E non hanno mai smesso di tifare per me”.
Cosa ti mancava dell’Italia? E cosa non ti mancava dell’Italia?
Diamo per scontati famiglia e amici. Mi mancava quel senso di sicurezza che, vivendo in Occidente, nemmeno ti rendi conto di provare. Se di notte senti un rumore, ti giri dall’altra parte e dormi. Non scatti in piedi per capire se sparano a te oppure no. Dopo il Congo, viaggiare in auto dopo il tramonto o entrare a casa senza aver prima controllato via radio se i guardiani sono ancora vivi, non è più scontato. Quello che non mi mancava? Nella top ten c’è il correre sempre ai mille all’ora. Anche quando non sai dove vai”.
Hai mai pensato di fuggire da tutti quei problemi e tornartene in Italia?
Fuggire non è una soluzione. Ma una volta, una sola, pensai di farlo. I ribelli attaccarono di notte. La mattina dopo riuscii a salire su un elicottero dei caschi blu che era lì per evacuare tre osservatori Onu. Al decollo, i due guardiani e l’agronomo con cui ero rimasto dodici ore sotto i proiettili, mi salutarono con la mano e rimasero lì, tra mortai, saccheggi, violenze. Io bianco, loro neri. Io salvo, loro no. Fu un dolore indicibile, una vergogna meschina. Marino, maestro del vivere in guerra, tre giorni dopo mi accompagnò al villaggio. Si sparava ancora. Andammo a cercarli in foresta. Non solo loro tre, ma tutto lo staff di progetto, quasi sessanta persone. Qualcuno era vivo. Qualcuno no. Portammo viveri, vestiti, medicine e ricominciammo a lavorare. Capii quella sera, mentre il riso bolliva in una pignatta da campo, che fuggire è inutile, triste, dannoso. Anche per chi si salva la pelle e poi vive di rimorsi”. 
La tua Ong ti pagava?
All’inizio una miseria. Oggi guadagno un buon salario. La cooperazione è diventata un mestiere da professionisti. Sono finiti i tempi della carità e della beneficienza. La sfida è gestire milioni di euro stretti in una morsa: da un lato le regole occidentali dei finanziatori, uguali a quelle che sappiamo: appalti, bilanci certificati, controlli di qualità e via dicendo. Dall’altro, una realtà agli antipodi della burocrazia. Pensate sia facile, sulle montagne del Pakistan, fare una gara d’appalto per il “noleggio di 152 muli senza conducente” ed ottenere i documenti necessari per scegliere il fornitore? Si impara anche quello, perché se non dimostri di aver scelto i muli migliori, il finanziatore non paga. Per i muli, magari, ti aggiusti. Quando l’appalto è da qualche milione di euro, se sbagli sono guai. Non c’è solo chi mette i soldi, a controllare. C’è anche il governo del Paese dove operi. Trattare con qualche ministro o generale rampante non è roba da boy scout. Altro esempio: non conosco bene il codice del lavoro italiano, ma so a memoria quelli di altri 5 Paesi. A forza di citazioni in tribunale, impari anche le virgole. Sì, oggi le Ong pagano bene, perché cercano persone con le competenze minime per evitare di far fallire la baracca e per trovare soluzioni a problemi imprevedibili in zone imprevedibili. Il tutto nella trasparenza delle legislazioni internazionali e, ovviamente, non scordando il fine ultimo: migliorare la vita di quanta più gente possibile”.
Edoardo, che idea ti sei fatto del mondo della cooperazione? Chi ci lavora è sempre spinto da motivazioni nobili come la tua?
Ci sono due tipi di espatriati: quelli in malafede (pensano di rubare un salario girando il mondo) e quelli egoisti. I primi tornano a casa in un lampo. Non è un superiore gerarchico che li massacra, ma la realtà. Noi egoisti, invece, non torniamo più. È l’egoismo, che ci spinge. La necessità di dormire pensando di aver fatto qualcosa di buono. Siamo un branco di narcisisti dall’ego ipertrofico che gongolano quando riescono a tenere aperte le scuole in zona di guerra, o ad aviotrasportare cloro nel mezzo di un’epidemia di colera. L’idea “nobile” di cambiare il mondo come martiri o eroi, scompare in fretta. Il mondo è troppo complesso, si cambia solo un metro alla volta. La felicità di poterlo fare è quel sentimento egoista che prevale sugli agi e sugli affetti lasciati a casa”.
In quale modo in quel periodo è cambiata la tua visione del mondo? 
Più viaggi e più metti in dubbio quelle certezze credute eterne. Più gente conosci, più ti fai domande. Per agire, sei ovviamente costretto ad esprimere giudizi. Lo fai però in modo pragmatico. L’etica e la morale le hai perse al check-in di un qualche aeroporto. Non ti azzardi più a puntare il dito e dire: questa è quella giusta”. 
So che sei riuscito anche a trovare il momento per l’amore…
Sì, mi sono sposato con Camilla, 33 anni, di Terni. Fa il mio stesso mestiere e c’è un motivo. Come dicevo prima, è impossibile raccontare certe esperienze a chi non le ha vissute. La sera, quando siamo a corto di speranze, bastano due parole. In fondo agli occhi abbiamo gli stessi volti e le stesse paure. Se le dico che ci hanno sequestrato tre persone, lei sa, con orrenda precisione di dettagli, che cosa mi aspetta il giorno dopo”.
Lasciato l’Africa sei emigrato a Haiti…
Gli anni nei Grandi Laghi mi hanno etichettato come esperto di interventi d’urgenza. Il 12 gennaio del 2010, trenta minuti dopo il terremoto, i telefoni sono impazziti. La catastrofe aveva dimensioni tali che le Ong hanno raccattato urgentisti da ogni angolo del pianeta per catapultarli qui“.
Che realtà hai trovato?
Trecentomila morti in meno di un minuto. Per mesi abbiamo camminato su macerie. Contrariamente a ciò che si crede, non sono grigie, le macerie. Sono colorate. Spuntano una maglia, un piatto rotto, ciò che resta di una sedia, una culla, una scarpa, la foto di due sposi. E le macerie persistono anche nella testa dei sopravvissuti. In 25 giorni abbiamo reclutato 900 persone, ognuna di loro con almeno un lutto in famiglia. Uno zio, la moglie, un figlio, un fratello”.
Dopo Haiti che farai? Hai intenzione di rimanere nella cooperazione o tornare alla tua vita di un tempo?
Imprevisti permettendo, si starà in giro ancora un po’. Vorrei tornare in Africa. I vecchi missionari dicono: mangia, o l’Africa ti mangia. È riferito anche al cibo, ma non solo. L’Africa ti mastica, non ti lascia più andar via”.
C’è qualche sirena italiana che ti sta chiamando?
Quella degli affetti. Ti rendi conto che le persone a cui vuoi bene, quelle che avevi congelato nei ricordi, stanno invecchiando. I momenti che restano da passare con loro, sono sempre meno. Sai che un giorno te ne pentirai. Che sarà troppo tardi. Nessun’altra sirena, al momento”.
Dopo quello che hai fatto (e stai facendo) ti senti migliore come uomo?
Per certi versi sì. Conosco più cose, sono più disposto al dialogo, al confronto, all’ascolto di chi è diverso da me. Spero che, in giro per il mondo, ogni tanto, qualcuno si ricordi dell’Edo.
Per certi versi, no. Un esempio: in un campo di sfollati controllato da una gang di spacciatori, volevamo portare acqua potabile. Ci hanno chiesto il pizzo. Non ho pagato, perché se paghi oggi, domani chiedono il doppio. E stiamo parlando di gente senza scrupoli, che quando tu porti cinque litri d’acqua al giorno per famiglia, ne rubano tre e li rivendono in un altro quartiere”.
Allora che hai fatto?
Ho usato personaggi influenti (preti, maestri, signori del voodoo) per diffondere il messaggio “ci impediscono di entrare. Ce ne andiamo”. Cinque giorni dopo, 12.000 persone hanno lapidato i gangster. Qualcuno è riuscito a scappare, altri no. Abbiamo portato acqua per tre mesi. Ma sotto quelle tende c’era gente allo stremo. Vecchi, bambini, malati. Quanti ne siano morti in quei cinque giorni, quale sia stato il prezzo del “negoziato”, proprio non lo so. Di episodi simili potrei raccontarne molti. La domanda è la solita: ho fatto la scelta giusta? Sono una persona migliore? Chiedetelo a loro, agli sfollati e ai capi banda. Sul mio conto, ne sanno molto più di me”.
Anni fa, Edoardo Tagliani, in una delle sue corrispondenze per un settimanale, scrisse: “Che cosa vorrei? Scomparire. Scomparire in posti come questo, in posti orrendi di cui il mondo è pieno. Per vedere il peggio, perché credo che vedere il peggio sia un dovere. Perché credo che le luci scintillanti di una qualche città non possano mai, mai darti e farti comprendere quello che ti danno e ti fanno comprendere i lampi della guerra, gli occhi brillanti di un bambino scalzo che gioca con nulla, le ossa gracili di una donna che muore di fame, la violenza perpetrata gratuitamente, la feroce legge del più forte dettata nel tribunale dei fucili. Che cosa non vorrei? Tornare come prima. Impantanarmi nuovamente in una routine idiota e scordare. Scordare. Scordare sarebbe il delitto più grande. Il crimine più grave. Non voglio più, mai più, incazzarmi perché il cocktail non è ben miscelato. Mai più. E ho paura che possa capitare, perché siamo animali strani e piuttosto stupidi. Eh già. Strani e piuttosto stupidi”.




 







 

 

 

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Hanno collaborato a questo numero:

Nico Ivaldi

Marco Belloro
Gabriella Bernardi
Claudio Dutto
Omar Gattuso
Federico Gonzo
Irene Sibona

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