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Il Piemonte ha sete

 

 

Viaggio alla scoperta della siccità


di Claudio Dutto


Il lago di Breil-Sur-Roya - foto Lorenzo PiccardoLa locomotiva corre sulle rotaie rimesse a nuovo e si inerpica sulle montagne. Saluta il mare e passa il confine. È in arrivo dalla Liguria, è passata per la Francia: ha visto Ventimiglia, quindi ha percorso come il più improbabile dei salmoni il tragitto che costeggia il fiume Roya. Sbuca dal tunnel e comincia la discesa. Limone, Vernante, Robilante, Roccavione, Borgo San Dalmazzo, Cuneo. Cambio. Primo centro con più di cinquantamila persone ma non se ne accorge nessuno, la città è silenziosa.

Riparte e corre sulle rotaie arrugginite attraverso la pianura. Il paesaggio cambia, le montagne si allontanano e la nebbia si fa fitta. Centallo, Fossano, Savigliano, Cavallermaggiore, Racconigi: fine della provincia di Cuneo. Carmagnola, Villastellone, Trofarello, Moncalieri, Torino Lingotto, Torino Porta Nuova. Cambio. Ecco il capoluogo, l’ex capitale, una delle città più vive della penisola. Vivono novecentomila persone, ma sembrano di più. La stazione è un via vai di trolley, borsoni, valigette ventiquattrore, iPad, smartphone, libri, giornali free press, panini, caffè, qualche acquisto dell’ultimo momento che lì per lì è sembrato irrinunciabile.

Il Canale Cavour a Balocco - foto F. CeragioliRiparte ancora e questa volta i binari sono due. Quelli normali, arrugginiti, e quelli dell’alta velocità, riservate alle frecce. Un tratto è comune, ma poi tocca imboccare quelle storiche. Si va subito sotto terra, Torino Porta Susa, la stazione rinnovata, tecnologicamente un passo più avanti delle altre. Quindi Chivasso, fine della provincia di Torino. Santhià, provincia di Vercelli, chissà ancora per quanto. Passa Vercelli, arriva a Novara. È finito il Piemonte, si scende. La locomotiva continua il suo cammino verso Magenta, verso Milano, col ricordo delle montagne e la nebbia intorno a sé.

Ha visto genti diverse, paesaggi diversi, colture diverse. Ha visto il lago artificiale di Breil-sur-Roya e ha lambito il canale Cavour, che attinge dal Po per irrigare le distese di riso del Vercellese e del Novarese. Ha visto anche il mais, i castagni e i fagioli cuneesi e ha sentito parlare della siccità. Un problema che accomuna la parte bassa della regione, oltre all’Alessandrino e al Canavese. Un problema, anzi il problema per antonomasia dell’agricoltura locale, che da oltre vent’anni invoca a gran voce la costruzione di canali irrigui e bacini collettori adeguati. Ormai è rauca a forza di gridare, ormai è sfiduciata a forza di promesse elettorali vuote e inesistenti. “Già nel 1992, spiega Bruno Rivarossa, direttore regionale di Coldiretti, erano stati proposti diciassette siti per la costruzione di invasi, ma purtroppo non ne è stato realizzato nemmeno uno”. “Quello che chiediamo da troppi anni,  aggiunge Giovanni Demichelis, direttore regionale di Confagricoltura Piemonte, è che gli invasi vengano fatti, grandi o piccoli non fa differenza: l’importante è che siano fatti. La siccità non è un fatto episodico e le previsioni dicono che lo sarà sempre meno, quindi non è più tempo di tergiversare”.

Il lago di Serre-Ponçon - foto LieselIl modello a cui si guarda è quello di Serre-Ponçon, lago artificiale costruito negli anni Cinquanta sul fiume Durance, nella regione francese della Provenza-Alpi-Costa Azzurra. Un bacino da un miliardo e più di metri cubi d’acqua destinati all’irrigazione e alla produzione di energia elettrica, che ha permesso lo sviluppo di attività turistiche e commerciali e ha rilanciato l’economia di una valle che si stava progressivamente spopolando. “Questo modello non è applicabile tout court al contesto piemontese perché è difficile trovare uno spazio altrettanto grande che non sia abitato, ma occorre trovare una soluzione in tempi ragionevoli”, spiega Claudio Sacchetto, assessore regionale all’agricoltura. “È innegabile che le popolazioni di montagna avranno dei disagi ,ma questi devono essere compensati con vantaggi ancora maggiori: nuovi terreni, tariffe elettriche agevolate, nuove possibilità d’impresa”.

Il problema si ripresenta costantemente da diversi anni e il cambiamento climatico lo sta accentuando sempre di più. Mesi estivi di gran caldo ai quali fanno seguito pochi giorni con intensi temporali: scende tanta pioggia, ma è tutto inutile. Fa solo danni, perché la terra è così dura che non permette all’acqua di percolare, non la assorbe, la lascia scivolare quasi fosse cemento o asfalto. I mesi di luglio e agosto 2012 verranno ricordati proprio per questo motivo. Secondo i dati forniti dalla Società Meteorologica Italiana, infatti, il trimestre estivo è stato il secondo più caldo dal 1800, con 2,4° C oltre la media del periodo. Caronte, Scipione, Minosse e tutta la compagnia di personaggi ai quali sono stati intitolati gli anticicloni tropicali hanno dato un tocco di allegria a una situazione che le coltivazioni hanno sofferto parecchio, e gli agricoltori con loro. “Il problema della siccità è che si tratta di un fenomeno stagionale” ammette Marco Marchisio, uno dei tanti agricoltori under 30 del Cuneese, che ha deciso di portare avanti la tradizione di famiglia. “In estate tutti si schierano in nostro favore, ma le prime piogge autunnali spazzano via i buoni propositi fino all’anno successivo”.

A questa situazione si aggiunge quella della richiesta di contributi per danni da calamità naturali. È un sistema insostenibile perché il fondo adibito dallo stato è insufficiente e non riesce a soddisfare le numerose richieste che provengono da tutto il paese: gelo eccessivo, nevicate fuori stagione, temporali, frane, smottamenti, lupi, cinghiali e ungulati di vario genere, insetti, funghi, virus, terremoti e, per l’appunto, siccità, non permettono alla pila di richieste di indennizzo di abbassarsi mai. Quando va bene ci sono solo ritardi nell’erogazione dei fondi, il più delle volte si giunge a un nulla di fatto. 

Percorrendo da sud verso nord il Piemonte è possibile osservare un vero e proprio gradiente, una diversità in termini di vigore delle piante. Turgide, verdi, quasi presuntuose laddove l’acqua è abbondante; indebolite, giallastre, rade dove non è possibile irrigarle a dovere. Ettari ed ettari di mais, che qui come in tutta la Pianura Padana richiede una quantità esorbitante di acqua, quella che troppo spesso non c’è. Una coltura che non ha nulla di tipico per questa regione, dove non potrebbe svilupparsi se lasciata allo stato selvatico. Importata dall’America, passando per la Turchia (da cui il nome granturco), si è impossessata di tutto il nord Italia e non solo. Gran parte dell’acqua a disposizione viene quindi sfruttata per dissetare una pianta destinata all’ingrasso degli animali, non per sfamare le persone. La polenta, derivato diretto della cottura della farina di mais, era il cibo con cui si sfamavano i poveri. Oggi la carne di qualità è un prodotto che raggiunge costi considerevoli, un vero e proprio status symbol. A questo scopo se ne aggiunge un secondo: coltivare mais per alimentare impianti di energia a biogas, con tutti i risvolti etici ed economici del caso.

Parlare di siccità implica dunque una serie di ripensamenti sia sul piano sociale sia su quello territoriale. Ma di tutto questo una locomotiva non tiene conto. Nel suo lento andirivieni tra Limone a Novara può solo notare le differenze che esistono e proseguire.


Questo articolo ha vinto ex aequo la sesta edizione del Premio Piemonte Mese, Sezione Cultura e Ambiente

 

 

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da giornalista a cooperante: Edoardo Tagliani
intervista di Nico Ivaldi


 

Hanno collaborato a questo numero:

Nico Ivaldi

Marco Belloro
Gabriella Bernardi
Claudio Dutto
Omar Gattuso
Federico Gonzo
Irene Sibona

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