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Malti e luppoli. Un artigiano della birra a Marentino

 

 

 

 

Il Birrificio LoverBeer a Marentino


di Michela Damasco


Le sue birre, anche se prodotte professionalmente da pochi anni, hanno il carattere dei grandi classici: quando le si beve si ha la sensazione di ritrovarsi nel filone di una tradizione antica, dove il savoir-faire artigiano, l’attenzione alle materie prime e il tempo hanno un vero significato”.

Alcuni dei cinquanta esperti che da tre anni a questa parte la rivista “Fermento Birra” interpella per proclamare il Birraio dell’anno, hanno motivato così la scelta del vincitore per il 2010: Valter Loverier, proprietario del birrificio Loverbeer di Marentino, in provincia di Torino. “Un bel riconoscimento” commenta con tono pacato lui, da sempre interessato al mondo dell’enogastronomia, birraio per scelta e passione dopo essersi avvicinato al mondo dei formaggi e del vino, fino a un corso di degustazione nel corso del quale s’imbatte nell’accostamento di formaggi e birre artigianali. Poi, manifestazioni come Cheese e Salone del Gusto e creazione di una rete di contatti stimolanti.

All’inizio del nuovo millennio, galeotto fu il primo fermentatore, ricevuto come regalo di compleanno dalla moglie: “Ho cominciato a diventare un bevitore più attento, spiega Loverier, e a cimentarmi nell’arte dello home brewing (per i profani, l’arte di produrre la birra in casa, ndr). Ho fatto ricerche su internet e alcuni viaggi per conoscere la produzione della birra delle origini, cercando ricette dei vecchi stili e di qualche produttore, soprattutto nelle Fiandre”.

Fin dagli esordi, gli esperimenti casalinghi sono audaci, ma raccolgono consensi, non solo tra amici e consumatori occasionali ma anche, tra gli altri, da Lorenzo Dabove, in arte Kuaska, considerato il massimo esperto italiano di birra belga, noto in campo internazionale per il suo impegno nel promuovere la birra artigianale nel nostro Paese.

Le mie birre, da subito, sono state caratterizzate dalla ricerca per un prodotto di qualità che potesse coniugare la tradizione dei più autentici stili di birra con il territorio nel quale sono nato e vissuto”, dice ancora Loverier, aggiungendo che sono “a volte estreme, con armonie di sapori e profumi che si bilanciano l’un l’altro, creando un prodotto capace di sorprendere anche i palati più curiosi”. L’attenzione per il proprio territorio l’ha infatti portato a pensare di “poter impiegare l’uva come componente della birra”, ma non solo. La prima birra si chiama Beerbera ed è prodotta a fermentazione spontanea in legno grazie all’aggiunta di uva Barbera pigiata e diraspata. Segue la Beerbrugna, ad alta fermentazione, in cui vengono aggiunte in macerazione (rappresentando un utilizzo pressoché unico nel panorama delle birre artigianali italiane) susine damaschine, cioè i ramassin.

Un passo alla volta, ma con ritmo sostenuto, il birraio aumenta i contatti e gli apprezzamenti per una produzione che resta casalinga e ritagliata nel tempo libero, visto che lavora nel campo dell’informatica e dei videotelefoni. Il vero salto di qualità risale al 2008: “L’azienda in cui lavoravo,  racconta sempre con tono calmo, ha cominciato a entrare in crisi, e così ho definitivamente deciso di lasciare il lavoro e mettermi per conto mio, aprendo un birrificio”. Loveerbeer, appunto, “in una zona bellissima in collina”: una ditta individuale fondata nel 2009. Aprire un birrificio - che effettua solo produzione e non somministrazione (“perché così me ne sarei potuto occupare da solo”) - comporta un investimento iniziale non da poco e non ancora recuperato del tutto anche se le birre, pur avendo “sapori e sensazioni molto diversi anche da altre artigianali”, incuriosiscono e piacciono. Alle citate Beerbera e Beerbrugna, si sono affiancate la Madamin, fermentata e maturata solo in tini di rovere, la D’UvaBeer, prodotta con l’aggiunta di mosto d’uva Freisa in fermentazione, la Dama Brun-a, fermentata in tini di rovere e maturata per 12 mesi in barrique grandi, la Papessa, dal colore scuro e forte gradazione con un’alta percentuale di cereali tostati, il cui processo produttivo dà vita anche alla Marchè’l Re: quando la Papessa va in bottiglia, infatti, una parte viene messa per altri dodici mesi in barrique, dove riceve caffè e spezie. Sette varietà con cui Loverier ha iniziato il suo percorso fin dai tempi in cui produceva in casa: ora lavora in una struttura con due tini in rovere, in cui avviene sia la fermentazione sia la maturazione, barrique e cantina climatizzata. 

Le sue birre, non a caso suddivise tra speciali e specialissime, e non solo per l’originalità dei nomi, ma anche per gli ingredienti e il processo di produzione, richiedono tempo. Prima di tutto, infatti, l’utilizzo di mosto d’uva è legato alla vendemmia. Poi, “dalla cotta al prodotto vendibile possono passare dai sei mesi a un anno, per via di una lunga maturazione in legno. Le birre che produco hanno tutte l’annata di produzione perché, per le loro caratteristiche, sono affinabili in cantina, hanno una curva evolutiva nella bottiglia, possono ‘invecchiare’ e non sono pensate per un consumo veloce”.

E sono proprio queste peculiarità a renderle un prodotto “nicchia della nicchia”, rivolto a un pubblico di alto livello. La formula ha successo, anche a livello internazionale, in barba alla crisi. “I miei consumatori sono di un certo tipo, conoscono il mio prodotto, quindi non solo non risento della crisi, ma, nel mio piccolo, credo di aver creato un bell’indotto, affidandomi a fornitori sul territorio. Il 60% di ciò che produco viene venduto negli Stati Uniti, in Norvegia, Belgio, Danimarca e Olanda”. C’è poi la “fettina” italiana, anche se le birre non sono facili da trovare, per via di una sorta di “selezione naturale” dettata dalle loro caratteristiche, poiché non rientrano nel classico genere della birra che può piacere a tutti i palati: “Solo un locale, a Roma, ha la mia birra alla spina; per il resto, ci sono distributori su tutto il territorio; i clienti finali sono enoteche, ristoranti e gastronomie, oltre a posti in cui le si può trovare in vendita”.

Paradossalmente, il marchio Loverbeer risulta essere, in proporzione, più conosciuto e apprezzato all’estero che in Italia: “Spesso chi viene qui, un po’ fuorimano, e quindi apposta per il birrificio, è straniero, ed è buffo pensare che, in confronto, sono poco conosciuto nella realtà locale” dice sorridendo il proprietario, vuoi perché molti birrifici somministrano solo la propria birra, vuoi perché chi vende birre così particolari dovrebbe rivolgersi a un professionista che “le valorizzi e le faccia conoscere. Servirebbe maggiore cultura in questo senso”.

Intanto, la nicchia di mercato che il birrificio si è ritagliato è tutto sommato felice: “Il mio problema è, semmai, riuscire a produrre” aggiunge Loverier, riferendosi ai tempi da rispettare e alle effettive quantità di prodotto che si ottengono dopo mesi. Ci vogliono voglia e pazienza, per poter arrivare a un “risultato di qualità”. Tanto lavoro, che, da solo, non basta: “Se non ci fosse la passione, ci sarebbe da spararsi”. Detto quasi sottovoce e con il sorriso. 


 

 

Immagini tratte dal sito www.loverbeer.com

 



 

 

 

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Hanno collaborato a questo numero:

Nico Ivaldi

Roberta Arias
Gabriella Bernardi
Silvia Bia
Francesca Dalmasso
Michela Damasco
Andrea Di Salvo
Marina Rota
Floriana Rullo

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