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Metterci la faccia
Storie dai mercati della terra
di Gabriele Pieroni
Ci sono un contadino, un pastore e un mercato. Tutti e tre hanno fatto, a modo loro, scelte controcorrente. Ma, per fortuna, nella stessa direzione. Questa è la storia di come tre storie possono diventarne una sola. Perché Beppe Taliano, Alessandro Boasso e il Mercato della Terra, hanno deciso di vendere ciò che sono. E, almeno in parte, di essere ciò che vendono. E sono felici.
Il contadino e il filosofo. “Lo sa che ha dei cavoli meravigliosi? Come si chiamano?”. “Taliano, signora”. ”Ah sì? E che qualità sono?”. “Taliano, signora, la mia”. Beppe Taliano, 50 anni, è un contadino. Si direbbe coltivatore diretto, ma lui preferisce il piemontese cuntadin. Ha quelle mani che non si vedono più in giro. Quelle ti si appiccicano alla memoria promettendoti mondi. Anche se le lavasse un centinaio di volte strofinandole con il sapone, risulterebbero ancora opache, spolverate come da un velo di terra. Nello spaccio che ha ricavato sotto il fienile della sua cascina Beppe espone le bottiglie del suo vino biologico. L’etichetta è l’effige di una Madonna cinquecentesca con bambino, lascito fortuito di generazioni di Taliano, passata di mano in mano a partire da un antenato sacerdote: “Questa Signora costituisce l’antroposofia della mia famiglia”. Dice davvero “antroposofia!”. “È la prova tangibile di qualcosa che non è dimostrabile scientificamente, ma non per questo non esiste. Da quando quel quadro è con noi nessun membro della famiglia è mai morto in guerra e tutti i nostri bambini sono nati sani e cresciuti robusti”.
Lui, la sua famiglia ed un bracciante coltivano circa sette ettari di terreno a Scaparoni, una minuscola frazione fra Alba e Bra. Leggono Rudolf Steiner e coltivano la terra secondo i precetti dell’agricoltura biodinamica: ortaggi, frutta, e qualche vigna. Si proibiscono tassativamente l’uso di antimuffa, parassitari, concimi di sintesi chimica. E rifiutano qualsiasi utilizzo industriale o intensivo delle terra che, precisa Beppe, “può essere di mia proprietà. Ma non sarà mai 'mia'”.
Il giovane pastore. Alessandro Boasso, classe 1981, diplomato ragioniere, fa il pastore. Accudisce circa sessanta fra capre e pecore delle Langhe, una razza in via di estinzione di cui rimangono poco più di duemila capi. A Mombarcaro, la “vetta” delle Langhe, vive con la moglie e un figlio di un anno e mezzo. Ha ristrutturato la vecchia cascina dei suoi genitori e da quattro anni si è messo in testa di produrre latte e formaggi, il suo sogno. Per farlo ha abbandonato la redditizia industria del vino nella quale era impiegato. “Quando abbiamo deciso di cominciare eravamo spaventati, perché sapevamo di iniziare non da zero, ma da meno dieci”, prova a spiegare. “Io e mia moglie abbiamo dovuto imparare ogni cosa da alcuni amici”. Pensavano di arrivare in paese ed essere guardati con sospetto, come forestieri portatori di fastidi e concorrenza, “invece ci hanno dato una mano ad imparare il mestiere, ad apprendere i segreti della pastorizia e della trasformazione del latte. Per un anno un’azienda qui vicino ci ha permesso di fare il formaggio da loro”. Anche Alessandro ha dei principi riguardo alla sua professione: solo pascoli stabili per le sue pecore, niente mangimi di dubbia provenienza per aumentare la produzione di latte, cura maniacale dei prodotti dall’animale alla tavola. “Quando vendo il mio formaggio offro un pezzo di me stesso: conosco ogni pecora, ogni forma di tuma o robiola che ho prodotto”.
Beppe Taliano, contadino e “filosofo”. Alessandro Boasso, giovane pastore che ha inseguito il sogno dei pascoli d’Alta Langa. Figure di oggi e d’un tempo che fu. Piccoli rivoluzionari silenziosi all’interno di un mercato che sembra premiare soltanto le economie di larga scala. Oggi i lavoratori agricoli sono mosche bianche nel panorama degli occupati italiani. Gli ultimi cinquant’anni hanno visto gli impiegati in agricoltura passare dal 50 al 5,4% del totale dei lavoratori. E i giovani agricoltori rappresentano appena il 7% degli addetti al settore agricolo. Tra i possibili motivi di questa situazione, secondo Paolo Rovellotti, presidente regionale di Coldiretti Piemonte, figurano margini di reddito troppo bassi ed una enorme frammentazione fondiaria. Così, i produttori proprietari di una piccola azienda sono spesso destinati ad arrendersi alle logiche della grande distribuzione, che diminuiscono i costi a discapito di qualità e amore verso il prodotto.
Quando andavo in visita da alcuni mie amici agricoltori, racconta Beppe Taliano, mi invitavano ad assaggiare le loro tumatiche, i pomodori”. Ma lo mettevano in guardia dal prendere quelli destinati al mercato. “Tasta sti sì chi sun cui dl’ort”, gli dicevano. Assaggia questi, quelli del nostro orto privato. “Allora mi sono chiesto: non c’è un modo attraverso il quale un contadino o un pastore possono dare al consumatore ciò che mettono sulle loro tavole?”.
Un modo in effetti esiste. E si chiama Mercato della Terra. Dalle pianure alle colline, dalle piole di montagna alle coste mediterranee, questi mercati selezionano i migliori coltivatori diretti e artigiani dell’enogastronomia locale per offrire al cliente un’esperienza di consumo completamente diversa. Sotto la guida centrale della Fondazione Slow Food di Carlo Petrini, ma presieduti da comitati autoctoni, dal 2005 i Mercati della Terra si propongono come anello di congiunzione fra un certo tipo di produttori e un certo tipo di consumatore.
L’idea di esaltare i prodotti autoctoni nasce da uno studio di Linda Kay, David Szanto e Gigi Frassanito, studenti del Master in Food Culture dell’Università di Scienze Gastronomiche, a Pollenzo. Che grazie ad un finanziamento della Regione Toscana, a Montevarchi, Arezzo, sperimentano il primo Mercato della Terra. Il progetto è ambizioso. In cinque anni coinvolge i comuni di Bologna, Milano, Cairo Montenotte, Calamandrana, San Miniato, San Daniele del Friuli, Umbertide, Colorno e Ciampino. E Finalmente, nel 2010, giunge anche ad Alba, a meno di 10 chilometri da dove l’idea era stata concepita.
È qui che Italo Seletto e Massimo Bodda decidono di riunire sotto un’unica bandiera le piccole aziende che in giro per le Langhe si occupano di biologico. “Abbiamo scritto regole precise e preso i contatti con i produttori”, racconta Seletto. Regole che prevedono la cultura biologica, la stagionalità del prodotto venduto, la valorizzazione delle specie autoctone, la proprietà o l’affitto della terra su cui si produce e il raggio massimo di provenienza delle merci di 50 km circa. “Sembra naturale che al mercato cittadino o rionale i prodotti arrivino dai campi circostanti, ma non è così”, spiega Italo Seletto. “Questi nuovi mercati riallacciano la nostre tavole alla terra che viene coltivata intorno a noi e contribuiscono a far sì che il nostro territorio, fisico e culturale, non venga disperso”. Se diventasse diffuso e vantaggioso produrre in questa maniera, sogna Seletto, ne avremmo tutti un vantaggio: “Non solo cibo di qualità, ma un posto migliore in cui vivere”.
È al Mercato della Terra di Alba che si sono conosciuti Alessandro il pastore e il contadino Beppe. Che ogni sabato mattina, dai rispettivi gazebo color nocciola, vendono, assieme ai loro prodotti, un poco della loro storia. “È il mercato della faccia”, conclude Seletto. “Qui con le pere si mette sul bancone la fiducia”. Al banco di Beppe, i clienti hanno dovuto organizzarsi con i numerini tanta è la calca per essere serviti. Lui, sorridente, saluta ciascuno con una stretta di mano. Poi, riempie le buste di carta.
Questo articolo ha vinto ex aequo la V edizione del Premio Piemonte Mese, sezione Enogastronomia
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