I ricordi del professor Briccarello
di Marina Rota
Franguntur remi, tum prora avertit etundis / Scuta virum galeasque et fortia corpora volvit...
Declama a memoria la De Iunonis ira dall’Eneide; poi sarà la volta de L’infinito di Leopardi, nonché di alcune terzine de La Divina Commedia.
Il professor Lincoln Briccarello, pneumologo novantacinquenne, uno dei medici più noti e amati di Torino, ogni tanto prova la sua memoria e si irrita con se stesso se salta qualche verso. Non se lo sarebbe mai potuto perdonare da ragazzo, quando la preparazione scolastica costituiva per lui una continua sfida: da ciò che ci sta raccontando, avrebbe trascorso notti in bianco, per raggiungere la perfezione.
Seduto sul terrazzo della sua casa in collina, dove appaiono a tratti la figlia e i nipoti per i riti evidentemente affettuosi della medicina e del caffè, il professore, avvolto in un impermeabile chiaro, sprigiona, nonostante l’esilità, un’autorevolezza che domina la scena. È facile immaginarlo in camice anni fa, nel reparto del San Luigi che dirigeva, attorniato dai giovani colleghi che lo considerarono maestro di vita, oltre che di medicina. E adesso che in ospedale non lavora più, continua a ricevere nel suo studio di corso Dante. “Prima facevo orario dalle 14 alle 18; adesso solo dalle 12 alle 14”, precisa.
Ha sempre sognato di diventare medico?
No, pensavo di rimanere contadino, come i miei. Portavo al pascolo le mucche e i maiali. Ho ripetuto la terza elementare che avevo interrotto per aiutare mio padre in campagna. Ero un po’ dispiaciuto. Poi un amico missionario venne a trovare mio padre, gli chiese chi ero: “L’è ‘l me cit. A fa ël paisàn” Il missionario lo mise in guardia: “Gavlo d’ande ‘n pastura desno venra mai veij”. Mio padre si spaventò a questa profezia e fece l’impossibile per farmi studiare”.
E il suo nome così singolare?
Già, sembra il nome di un nativo di San Paolo del Brasile, più che di San Paolo Solbrito! Mio padre, richiamato in guerra come operaio alla Fiat Ricambi in corso Dante, dove si fabbricavano armi, aveva stretto amicizia con il caporeparto americano. Così quando nacqui io – il quarto figlio che dava diritto all’esonero - decise di darmi il suo nome. Il prete però, che accettava solo nomi cristiani, mi battezzò Matteo, il nome di mio nonno, mentre in Comune venni registrato come Lincoln. Quando, finito il ginnasio, sostituii d’estate il segretario comunale, presi il registro delle nascite, andai dal prete e gli feci notare che non potevo avere due nomi. Lui intinse solennemente la penna in un flacone di inchiostro ricavato dalle bacche, mise una croce su “Matteo”, e scrisse “Lincoln”. Un nome che ho lasciato in eredità”.
In che senso?
Un giorno venne nel mio studio una coppia. Si sedette subito il marito: il malato è quello che si siede per primo. Soffriva di tubercolosi ed era in pneumotorace da oltre un anno. Gli consigliai di sospenderlo dopo 4-6 mesi. Quando l’anno dopo il paziente ritornò, mi disse che i medici non avevano voluto interromperlo, e così mi rispose l’anno dopo e ancora l’anno seguente. A questo punto gli consigliai di non venire più da me, perché stava sprecando soldi e tempo. Spiegai che il suo polmone in questo modo avrebbe perso la funzionalità, e correva anche il rischio che si perforasse l’arteria intercostale, provocando un’emorragia interna asintomatica. Raccomandai quindi alla moglie di portarlo immediatamente in ospedale, se lo avesse visto pallido e stanco. Alcuni giorni dopo mi telefonò agitatissima, insistendo perché andassi da loro. Il marito era più bianco del mio camice. Lei chiamò l’ambulanza, io la sala operatoria. Sventato il pericolo, e guarito il paziente anche dalla tubercolosi, la coppia mi parlò del desiderio di un figlio. “Non perdete tempo!” risposi io. Quando nacque il bambino, vollero chiamarlo come me. Adesso l’altro Lincoln ha 36 anni. Ogni Natale mi mandano una cesta di mele”.
Come riuscì a proseguire gli studi?
«L’unica possibilità era il seminario. A settembre arrivai al collegio, un vecchio castello, coi miei genitori su un barroccio trainato da un cavallo. La retta era di 50 lire al mese ma mio padre, povero in canna, volle pagarne 100 perché abbondassero col cibo. Così dividevo coi compagni le pietanze in più: mi sarei vergognato a mangiarle da solo! Nel cortile guardavo gli altri giocare; stavo per conto mio, mi sentivo un pesce fuor d’acqua”.
E a scuola come si trovò?
Dopo la messa il professore ci diede un compito di analisi logica. Non l’avevo mai sentita nominare. Chiesi lumi a un compagno, che rispose: ”Il soggetto, il complemento, il predicato…” Cosi feci un compito a caso: random, come direbbero gli americani. Il giorno dopo il professore, un sacerdote elegante, di ottima famiglia, lo lesse davanti ai compagni che a sentire i miei svarioni prima risero, poi schiamazzarono. Così finii nel banco dell’asino con quattro compagni: questo significava essere esonerati da compiti e lezioni, e destinati all’espulsione… Finite le lezioni presi i libri di analisi logica e di latino - che i miei compagni, a differenza di me, avevano già studiato – e li imparai a memoria in otto giorni. Al successivo compito in classe il professore assegnò delle frasi di cui fare l’analisi logica e la traduzione in latino; e anche se come asino non avrei potuto, lo eseguii e lo infilai tra gli altri. Il giorno dopo l’insegnante arrivò sventagliando il mio compito “Briccarello, chi te lo ha fatto? Tu non sai nemmeno che cosa sia il latino! Eppure non hai copiato dai tuoi compagni: loro di errori ne hanno fatti, tu no!” Così mi assegnò un esercizio impegnativo, dandomi un’ora di tempo. Dopo tre quarti d’ora mi alzai “Non hai capito qualcosa?” chiese il professore. “No, il compito è finito”, risposi. Il giorno dopo, dal banco dell’asino passai al banco del primo della classe. Insegnai ciò che avevo imparato anche agli altri quattro asini che furono tutti riammessi”.
Poi una febbre da bronchite asmatica scambiata per tubercolosi, e il giovane Lincoln fu spedito in una succursale al mare, dove era ammesso a scuola solo come uditore. Perduti due anni, decise di presentarsi alla licenza ginnasiale come privatista: una patente quasi certa per la bocciatura, che lo condusse invece alla promozione con una nota di merito. Il tempo perso lo riscattò al liceo classico d’Azeglio, completando gli studi in due anni anziché in tre.
Se non mi avessero bloccato, sarei diventato medico a vent’anni” si duole il professore.
Il liceale Briccarello studiava dalle 20 alle 24, nella stalla, con un lume a petrolio; si alzava alle 5:45 e percorreva con ogni tempo i due chilometri e mezzo che lo separavano dalla stazione e dal suo futuro.
ll preside mi richiamò perché a volte, per colpa del treno, arrivavo in ritardo. Dopo avermi ascoltato, commentò: “Vedremo il profitto”. Dopo qualche giorno mi disse “Briccarello, fai l’orario che vuoi”. Anzi, i professori, quando non c’erano lezioni al pomeriggio, mi spronavano a uscire prima perché non perdessi il treno delle 12:28. Al mattino uno di loro veniva a prendermi a Porta Nuova e mi offriva la colazione da Platti”.
Sempre bei voti?
Solo una volta presi 5 di matematica. Mi ripromisi che non sarebbe mai più successo. Studiai per tutte le vacanze di Natale, finché non diventai un calcolatore. Qualche amarezza certo non mancò: il bidello del D’Azeglio aveva profetizzato davanti alla classe che “nel primo trimestre sarebbero stati cacciati tutti i cani randagi” provenienti da altri ginnasi. Ma dal giorno in cui corressi alla lavagna due errori di sintassi latina commessi dal figlio di un noto docente universitario, spiegando al professore che si trattava di un’eccezione riportata nella tal pagina del testo, nessuno mi definì più un cane randagio. Un ricordo sorridente va alla professoressa D.R. Quando decisi di saltare l’ultimo anno, lei mi propose di andare a lezione a casa sua dal giorno seguente. “Non posso, professoressa” “Se non le va bene l’ora, la decida lei’’ “Non è per l’orario…” risposi. “Le ho forse chiesto dei soldi?” La rividi trent’anni dopo nel mio studio e quando le ricordai l’episodio scoppiò a piangere”.
Poi l’iscrizione a Medicina.
Sì, perché consideravo Veterinaria un po’ più dispersiva. Già al primo anno d‘università il prof. Giacinto Giordano, proprietario della Cellini, mi propose di dare ripetizioni di latino al figlio e di entrare nella sua clinica come allievo interno. Accettai entusiasta: con la borsa di studio che avevo vinto al Real Collegio e il lavoro alla Cellini, avrei potuto abitare in ospedale e aiutare finalmente mio padre, con cui avevo un rapporto meraviglioso”.
E la guerra?
Mi laureai il 10 luglio 1943. Entrando da Fiorio sentii la radio annunciare lo sbarco in Sicilia. Il giorno seguente Torino subì un bombardamento spaventoso. La clinica Pinna Pintor sfollò a Beaulard e io la diressi fino al 5 giugno del 1945, svolgendo un’intensa attività medico-chirurgica. Là veniva a trovarmi Ada Marchesini Gobetti; l’ultima volta fu una domenica alla fine del 1944. La invitai a pranzo coi suoi amici e coprii la sua fuga in Francia mentendo al capitano tedesco che mi interrogò il giorno dopo. Era furibondo perché la neve aveva coperto tutte le tracce e mi guardò come un cane in chiesa”.
Poi la fine della guerra, il matrimonio, la lunga esperienza come assistente volontario alle Molinette col prof. Usseglio Mattiet.
Ci occupavamo di tutto, dalla chirurgia alla ginecologia. Il professore era un diagnostico formidabile. Un giorno mi indicò un paziente febbricitante dopo l’operazione di appendicite: ”Vedi? Quella è una tubercolosi”. L’aveva dedotto da uno zigomo arrossato; un segnale che da allora mi fu prezioso per diagnosticare altri casi di tubercolosi con sintomi di appendicite”
Vinto il concorso per assistente al San Luigi, in tempi record il dott. Briccarello ottenne il primariato. Non ha mai avuto paura, nella sua professione?
Sì, una volta, quando decisi di eseguire un’autopsia su un paziente deceduto per sospetto linfoma. La moglie, che non ne voleva sapere, venne nel mio studio; quando le dissi che sarebbero occorsi tre giorni per l’autopsia, mi rispose: ”Io farò molto più in fretta”, ed estrasse dalla borsa un coltello con una lama spaventosa. Io le dissi: “Signora, ho fatto la guerra. Non ho nessuna paura del suo coltello, lo metta via”. Invece di paura ne avevo e anche molta”.
Qual era il suo rapporto coi pazienti?
Rispettoso ma fermo. I colleghi più giovani mi ringraziano ancora per aver imparato da me a trattare il malato. Al San Luigi avevo una sessantina di pazienti affetti da tubercolosi e completamente anarchici: scappavano dal reparto per bere e fumare. Così eseguii personalmente delle ispezioni negli armadietti: mentre il lunedì erano vuoti, perché non era giorno di visita, il martedì traboccavano di generi di conforto. Impiegai ore per vuotare nei lavandini le bottiglie di vino e sbriciolare le sigarette portate dai parenti”.
Come si è evoluta la diagnosi della malattia?
«Potrei risponderle che la differenza fra la medicina del 1940 e quella attuale è quella che passa fra una carretta arrugginita e una Ferrari. Ma la differenza più rilevante è che, mentre il medico di una volta trattava il paziente dall’esterno all’interno, ossia dalla cute agli organi interni, ora può disporre di esami eseguiti da macchinari sofisticatissimi prima di visitarlo; e quindi agisce dall’interno all’esterno. Con una certa limitazione, dovuta alla mancata definizione dello stato di salute dell’intera compagine.
La visita medica adesso è un ricordo…»
Male. Il paziente dev’essere visitato nudo; in piedi, e poi sdraiato. L’ispezione, l’auscultazione, la palpazione, permettono di captare i segnali che riflettono eventuali patologie. Vede, noi siamo fatti a strati, come i metàmeri: alle alterazioni esterne corrispondono quelle interne”.
I consigli del professore per vivere bene sono semplici e importanti: poca carne rossa, non fumare, mantenere il peso dei 18 anni.
Dicevo ai pazienti che non li avrei curati se non avessero smesso di fumare. Ma non ne ho mai abbandonato uno. Mai. Di notte pensavo a come curarli di giorno…”
Il professore mi saluta con un baciamano e un po’ di preoccupazione: “Non vorrei passare per un miles gloriosus, con quello che le ho raccontato…”
2012