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Anacleto Verrecchia e il suo Nietzche torinese
Nietzche? Un Anticristo goloso...
di Marina Rota
Primo aprile 2000: un articolo-shock di Anacleto Verrecchia mi fa sobbalzare sulla poltrona: il noto filosofo, studioso di Nietzsche, Schopenhauer e Giordano Bruno comunica da New York il ritrovamento di una lettera confidenziale spedita all’americano Karl Knorts, storico della letteratura, da Nietzsche, durante il suo soggiorno torinese del 1888, noto ai più solo per quell’abbraccio al cavallo, simbolo del collasso psichico del cantore di Zarathustra.
Col suo solito rigore filologico, Verrecchia illuminava di una luce sorprendente la figura dell’austero Nietzsche: quella di uno sciupafemmine predatore di alcove. La fortunata? Nientemeno che la deliziosa principessa Laetitia Bonaparte, andata poi sposa al duca di Aosta. Nella lettera Nietzsche non scendeva nei dettagli della liaison, limitandosi ad alcune confidenze: “Verso sera esco dalla mia camera ammobiliata di via Carlo Alberto e percorro via Po fino al Ponte Vittorio. Là, accompagnata da una domestica e opportunamente travestita per non dare nell’occhio, mi aspetta la duchessa…(…) Che estasi! Al di là del bene e del male! L’amo forsennatamente!”
Pronubi erano le piante e i cespugli dietro ai quali si consumavano i momenti di maggiore intimità.
Nel suo secondo soggiorno torinese, poi, Nietzsche confidava di aver amato “essenzialmente” la duchessa, appena sposata. “Diavolo d’un Nietzsche!”, commentava caustico Verrecchia. “Byron, che pure era un puttaniere matricolato, aveva qualche esitazione nel raggiungere a Ravenna la sua amante Teresa Guiccioli e andare a fare le corna in casa sua a un conte del Papa. Nietzsche, viceversa, non esitò un momento a fare le corna al duca d’Aosta”. Concludeva Verrecchia: “Nel mio libro La catastrofe di Nietzsche a Torino credevo di aver detto tutto sull’argomento, ma il clamoroso documento mi costringe a rivedere molte cose (…) e se Shakespeare raccomanda di “tenere la mano lontana dalla spaccatura della gonne”', Nietzsche non gli dà retta e armeggia non solo con le vesti della sua amata Laetitia, ma anche, com’è facile a capirsi, con la cordicella dei calzoni. In breve fa quello che abbiamo fatto tutti, non importa se tra i cespugli del Valentino o altrove. E questo, diciamolo francamente, ce lo rende simpatico”.
Non appena finita la lettura, mi attaccai al telefono per commentare il clamoroso articolo con tutti coloro che sapevo interessati alla figura dell’austero cantore di Zarathustra. Ma ecco la confessione del diabolico Verrecchia: “Non spetta a me, ma ai lettori, dire se il mio pesce d’aprile fosse cucinato bene o no…”. Aggiungeva, il filosofo burlone, che se il pesce era falso - perché la storia d’amore con la Bonaparte era stata inventata di sana pianta - falsa non era l’acqua in cui nuotava (ci fu davvero una corrispondenza fra Nietzsche e Kurtz, con allusioni del filosofo alla bellezza della Bonaparte), per poi concludere: “Quanto a Nietzsche, tutto lascia pensare che, se non si voltò indietro quando nacque non vide mai più com’è fatta una donna. Io l’ho trasformato con la fantasia, in un predone di alcove, e di questo i suoi ammiratori dionisiaci dovrebbero essermi grati”.
Lo scherzo di Anacleto Verrecchia, che gabbò tutti i lettori, mi indusse a leggere il suo La catastrofe di Nietzsche a Torino e a stringere con l’autore un rapporto di amicizia e scambio intellettuale, nel corso del quale più volte si approfondirono i particolari del soggiorno torinese di Nietzsche, esposti sempre da Verrecchia con una sorta di affettuoso divertissment interiore. Perché Nietzsche scelse di stabilirsi nella nostra città nel lontano 1888? Come ci si trovò? Com’era la Torino di allora?
Il professor Nietzsche, che a 34 anni aveva già ottenuto il collocamento a riposo dopo un breve periodo di insegnamento di filologia classica a Basilea, con la sua pensione di tremila marchi l’anno poteva permettersi di viaggiare da turista privilegiato, con inverni in Riviera ed estati in Alta Engadina, per mantenersi a temperatura costante. Gli studi di Verrecchia rimandano l’immagine di un turista più meteoropatico che culturale, perennemente alla ricerca dell’ambiente adatto alla sua temperatura ideale, alle sue manie e nevrosi. Indifferente ai monumenti della classicità a Paestum dove Goethe era caduto in estasi, e perfino al fascino di Venezia, dove preferiva informarsi sui prezzi di frutta e verdura, Nietzsche scelse Torino come stazione intermedia fra mare e montagna, programmando che vi si sarebbe fermato per due mesi - non un’ora di più né un’ora meno - dal 5 aprile al 5 giugno 1888; e poi per un secondo periodo dal 21 settembre dello stesso anno, nel corso del quale scrisse L'Anticristo e si verificò la sua catastrofe psichica.
Mi si vantano l’aria secca, scriveva all’amico Peter Gast, le vie silenziose e la straordinaria estensione della città, sì che io, senza espormi alla luce del sole, posso fare grandi percorsi”. Non appena sbarcato a Porta Nuova, con un plaid sul braccio per eventuali abbassamenti di temperatura, il filosofo si diresse in piazza Carlo Alberto, dove aveva sede la posta centrale; poi, attratto dalla bellezza della piazza, decise di prendervi dimora e in una rivendita di giornali chiese al gestore di indicargli una camera d’affitto presso una buona famiglia. Proprio il gestore Davide Fino, piccolo editore, gli affittò una camera nel suo bell’appartamento di via Carlo Alberto 6 all’ultimo piano. Le giornate di Nietzsche trascorrevano all’insegna della regolarità e della pedanteria (oltre che dell’indifferenza, anche qui, verso ogni tipo di museo, compreso quello Egizio, a pochi passi da casa): scrittura a orari fissi e passeggiate nel parco Michelotti (dove tutti sapevano indicare “la panchina Nietzsche”, la sua preferita), nel corso delle quali il filosofo concepì Il caso Wagner, un violento attacco contro il suo vecchio idolo.
La sua passione per Torino fu incontenibile: nelle sue lettere le pagine più belle sono dedicate all’atmosfera della città in primavera e in autunno, quando l’aria porta ancora le tracce del calore estivo ma i colori diventano più sfumati, come “in un dipinto di Claude Lorrain”. Nietzsche ne loda la cordialità degli abitanti, le librerie, la vivacità culturale e musicale (Nietzsche ascoltò per la prima volta a Torino la Carmen di Bizet, musicista che per lui diverrà il modello da opporre a Wagner). E ne apprezza, anche e soprattutto, la buona cucina. Il filosofo meteoropatico e abitudinario era infatti un golosone; e il suo soggiorno fu anche una storia di gustosi pranzi (“non ho mai avuto un’idea di che cosa potessero essere la carne, la verdura e tutte queste vivande propriamente italiane…Oggi, per esempio, i più delicati ossibuchi… per contorno, broccoli, e per primo, i più delicati maccheroni”) ma soprattutto di gelati e cioccolate che consumava nei caffé letterari (Fiorio, Nazionale, Londra, Cambio, Romano, Roma già Dilej), e ai quali dedicava lodi sperticate:“ Né posso fare a meno qui di aggiungere che la civiltà dei caffé di Torino sale ad altezze davvero vertiginose. Mi credevo conoscitore di gelati, spumoni, pezzi duri, e invece guarda un po’...”; e anche: “Dimenticavo di fare l’elogio della cioccolata torinese, la più famosa d’Europa’”
Torino gli dona “una felicissima ispirazione”; il suo pensiero si libra in copiose elaborazioni di scritti e in estasi creative: estasi che a poco a poco si faranno preoccupanti. In particolare,durante i funerali del Principe di Carignano, cugino del re (in una bara faraonica di 400 Kg trainata da 8 cavalli, che crearono tafferugli per la calca), Nietzsche non immaginava - commentava Verrecchia - che il destino andava preparando le esequie della sua ragione.
Anche il famoso aneddoto dell’abbraccio di Nietzsche al cavallo maltrattato per l’immensa compassione che gli aveva ispirato (episodio al quale Verrecchia, con la sua tenerezza per gli animali, non attribuiva probabilmente un significato così patologico) viene, se non confutato, almeno ridimensionato dalle tradizioni orali. Verrecchia infatti, non accontentandosi delle interpretazioni stereotipate, era riuscito a rintracciare attraverso l’anagrafe due nipoti di Davide Fino e a farsi raccontare i loro ricordi sul bizzarro inquilino. Era così venuto a sapere che i Fino non avevano dovuto attendere l’episodio del cavallo per capire che Nietzsche dava “in ciampanelle”: durante il suo secondo soggiorno aveva dato segnali preoccupanti ben prima che la sua pazzia si manifestasse in modo clamoroso. Nietzsche aveva trasformato la sua stanza in un “tempio”, in cui – annunciava esultante ai signori Fino - sarebbero andati a fargli visita il re e la regina; si qualificava come Carlo Alberto o come Vittorio Emanuele, indicando in palazzo Carignano il luogo della sua nascita; e scriveva a Jakob Burkhardt considerazioni quali ”…sarei stato molto più volentieri professore basileese che dio, ma non ho osato spingere così lontano il mio egoismo privato da tralasciare, per causa sua, la creazione del mondo”.
In quanto alle donne, l’unica che corteggiò fu la fascinosissima russa Lou Salomé, alla quale propose un matrimonio “in bianco”; proposta che la ragazza rifiutò, preferendogli, sempre “in bianco”, Paul Rée; forse perché stremata dai discorsi di Nietzsche sulla propria filosofia.
L’altro suo argomento di conversazione anche con le donne restava il clima. In una lettera dall’Alta Engadina raccontava di quanto soffrisse quel clima afoso, in contrasto con l’aria limpida di Torino; e, tabelle meteorologiche alla mano, riportava i giorni di pioggia e sereno di tutte le città d’Italia. Il fatto che questa lettera, scritta “con lo slancio e la fantasia di un impiegato delle poste”, chiosava il sagace Verrecchia, fosse indirizzata a una giovane e forse ben disposta conoscente di Nietzsche, dimostra come il corteggiamento romantico non fosse il punto di forza di un intellettuale concentrato solo sui suoi malanni e sulla temperatura esterna e interna
A tal proposito Verrecchia, nell’ultima intervista in pubblico prima della sua improvvisa scomparsa (così simile a quella di Schopenhauer) il 4 febbraio 2012, disquisì con l’abituale verve di un episodio inquietante riferito al secondo soggiorno torinese di Nietzsche, tratto da La Stufa dell’Anticristo. Freddoloso com’era, il Superuomo, le cui ossa non erano riscaldate a sufficienza dalle stufe italiane della famiglia Fino, ne volle ordinare una in Germania, grazie alla madre Franziska, che gli mandava regolarmente anche salsicce e prosciutti (i quali, a detta dell’Anticristo mammone e lamentoso, gli infondevano fiducia verso il futuro). Così arrivarono dai Fino la stufa da Dresda, i sacchi di combustibile e perfino scatole di fiammiferi, come se questi, e d’altronde la stessa stufa, non si potessero acquistare a Torino a minor prezzo.
Verrecchia fece parecchi tentativi per recuperare la stufa di Nietzsche, andando a rovistare invano anche nelle cantine (e senza chiedere finanziamenti, a differenza “dei filologi statali” contro cui lanciava i suoi strali).
Ci lascia così Verrecchia, nei suoi racconti e nei suoi saggi scanzonati scritti con sorridente semplicità e un’erudizione mai sussiegosa, la figura di un Anticristo “umano troppo umano”, che soggiornò nella nostra città, vi andò a teatro, a mangiare gelati, a passeggiare lungo il Po, restituendoci l’immagine non di un filosofo incorporeo e paludato, ma di un amico nevrotico, geniale e sfortunato. Merito della straordinaria capacità di immedesimazione di Anacleto Verrrecchia, ma anche della sua generosità di intellettuale che seppe rendere accessibile a tutti il suo sapere: dimostrando che la curiosità filosofica si può stuzzicare anche con un linguaggio irriverente. O perfino con una burla in cui cascarono anche gli occhiuti intellettuali abituati ad ammiccare solo ad altrettanto inaccessibili happy few.
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