Era destinato alla fabbrica, è diventato uno dei più bravi gelatieri italiani
intervista di Nico Ivaldi
A ripensare che era destinato alla fabbrica e invece per tutta la vita ha fatto e venduto gelati (e che gelati!), Alfio Tarateta può considerarsi davvero un uomo fortunato.
“Ultimo di dodici figli e con un padre operaio ai grandi laminatoi alle Ferriere Fiat, il mio destino era segnato: anch’io avrei preso la strada dell’officina.”
A “salvarlo” è un uomo grande e grosso che, guarda il caso, aveva un chiosco di gelati nel quartiere popolare di Regio Parco, dove Tarateta, oggi settantenne, torinese ma di origini pugliesi, uno dei “nomi” della gelateria italiana e non solo, era nato.
“Si chiamava Ciciu e ogni volta che passavo davanti al suo chiosco mi fermavo a guardare la macchina con la quale faceva il gelato. Per me era la scoperta di un mondo”.
Quali erano i gusti più buoni che faceva “Ciciu”?
“Il torroncino: era qualcosa di speciale, e anche la crema con le uova fresche era di un bontà immensa. Di quei primi anni Cinquanta ricordo anche quando il furgoncino che vendeva i gelati – due gusti, sempre quelli: crema e cioccolato… - entrava nei cortili delle case, per la gioia dei bambini, annunciato dal suono della trombetta. Un giorno un vigile minacciò di multare il venditore perché al suo mezzo mancava un catarifrangente: la gente del borgo protestò e la multa non gli venne data”.
Nel 1956, appena quindicenne, Alfio Tarateta imbocca la strada che non lascerà più per il corso della sua vita.
“Sono andato a lavorare nella storica gelateria di via Gramsci 12, La Cremeria, aperta l’anno prima. Ci sono rimasto dodici anni. Un periodo intenso di lavoro, la mia gavetta. In quegli anni eravamo una quindicina di persone a libro paga, in una zona impreziosita da locali storici, come il bar Zucca e il Deorsola”.
Luogo migliore per questa chiacchierata non poteva essere che “+ di un gelato”, la nuova gelateria copyright Tarateta (dopo quella di via San Tommaso 6) nata un mese fa a Torino nella cornice antica della Galleria Subalpina. Elena, la gelatiera ucraina sulle cui capacità Tarateta punta a occhi chiusi, sta travasando da un contenitore con la paletta d’acciaio una crema chiara e morbida.
“Oggi si lavora così; nel rispetto dell’igiene il gelato non viene toccato con un solo dito. Quando ho cominciato io questo lavoro, la pala era di legno, per cui spesso si sfilacciava, quindi bisognava rimuovere questi fili. Oggi la cultura della pulizia è predominante.Noi manipoliamo latte, panna, zuccheri, uova, tutti ingredienti che, se non ben conservati nella catena del freddo, subiscono delle alterazioni. Queste alterazioni, all’epoca, esistevano”.
Mentre finiamo di gustare l’eccezionale gusto di castagna, a Tarateta vengono in mente altri ricordi.
“Parliamo del latte. Il latte oggi arriva sanificato rispetto ai miei tempi, quando veniva consegnato in bidoni dalla ditta Biraghi di Cavallermaggiore e poi da noi cotto in padelloni di rame stagnato”.
Il gelato esiste dalla notte dei tempi: se ne parla addirittura nella Bibbia.
“Ma l’evoluzione che ha avuto, spiega Tarateta, è stata non tanto nei prodotti, che sono sempre quelli: latte, panna, zuccheri, uova, ma nei semilavorati, prodotti composti, come la nocciola, il torroncino, la malaga. La nostra regione è all’avanguardia nella produzione di nocciole, marroni, cioccolato; in Piemonte siamo fortunati, ecco perché da noi le gelaterie artigianali di qualità non mancano”.
Dopo dodici anni di lavoro “matto e disperatissimo” (come direbbe Leopardi, ma conoscendo l’impegno di Tarateta non siamo troppo lontani da quella definizione), il giovane Alfio decide di fare il salto di qualità: aprire un locale tutto suo. Non è solo: al suo fianco c’è un altro gran lavoratore, il riminese Giuseppe Raggini (scomparso tredici anni fa) con il quale Tarateta consoliderà un rapporto, oltre che professionale, anche di amicizia.
“Era l’agosto del ’68 e la cremeria che abbiamo aperto, la san Quintino, si trovava proprio davanti al liceo d’Azeglio, uno dei luoghi caldi della contestazione studentesca, benché frequentato da giovani della migliore borghesia cittadina”.
L’input di mettersi in proprio arriva da un grande arredatore di Sommariva del Bosco, Groppo, che propone ai due giovani, ricchi di entusiasmo ma ancora poveri di mezzi, l’allestimento del negozio. Un rapido scambio di occhiate fra i due e poi scatta l’ok: in tre anni pagheranno i debiti e potranno regalarsi qualche piccolo “lusso” (“un appartamento” sospira Alfio).
“È stato un periodo di grande lavoro e di grandi guadagni. Potevo perfino permettermi di chiudere qualche domenica e andare via con la famiglia. Lavoravamo tanto sul gelato ma anche sulla caffetteria. Facevamo delle creme calde al caffè, alla crema di latte, zabaioni caldi, di cui ormai a Torino si è persa l’abitudine. La crema al latte era quella che andava di più: con un rosso d’uovo, un mezzo bicchiere di latte e tre cucchiaini di zucchero vanigliato, il tutto montato, servivi una crema calda per la quale i nostri clienti andavano matti. Ricordo un ingegnere che, per colazione e spesso per cena, inzuppava un’intera rosetta di pane in questa crema”.
Non solo creme e gelati: la cremeria era specializzata anche nei panini, che vendeva agli affamati studenti del d’Azeglio: ciabatte farcite di salame, prosciutto, formaggio e tonno e carciofini. Ne confezionavano un’enormità e affidavano la vendita alla San Vincenzo, alla quale riconoscevano una percentuale sulle vendite.
Presto il duo Alfio-Beppe diventa un quartetto: anche le due mogli decidono di aiutare i mariti. Quella di Alfio lascia addirittura un posto d’oro al San Paolo per mettere ordine nei conti.
“Eravamo bravissimi al banco, ma con i numeri ci azzeccavamo poco, e poi sinceramente non avevamo nemmeno il tempo di seguire tutte le pratiche burocratiche” sorride Tarateta.
Passano gli anni e ai due enfant prodige comincia a stare stretta la cremeria san Quintino. Sarà una mini aggressione (“vetrine rotte al grido di Viva la Libertà, autori figli di papà, quelli che all’epoca si chiamavano cremini”) oltre a qualche altro problema di ordine pubblico (scambi di droga davanti al negozio) a convincere i due a cambiare aria. Vendono – bene – il locale e si trasferiscono a Torino sud.
“Groppo aveva rilevato una gelateria a Italia 61, reduce da alcune brutte disavventure. Era rimasta chiusa e mal frequentata per un annetto. Nella cantina c’era addirittura tutta l’attrezzatura per falsificare le targhe delle auto”.
Per prima cosa, pensano Alfio&Beppe, dobbiamo cambiare clientela.
“Cominciammo a non vendere più liquori e cocktail, solo caffè e gelati: così i vecchi frequentatori sparirono e ne arrivarono altri. Molta bella gente, i giocatori di Juve e Toro, e nel tempo turisti e scolaresche, che venivano da noi a festeggiare l’ultimo giorno di scuola, con la possibilità per i ragazzi di visitare il laboratorio dove veniva prodotto il gelato”.
Per la prima volta quel locale “Italia 61” viene chiamato caffetteria e non più bar.
“Il bar era il locale del ritrovo, del caffè col giornale, delle sigarette. Quando un cliente sostava troppo tempo, noi friggevamo. Non volevamo diventasse un club, il locale doveva essere un luogo di passaggio”.
Il successo è immediato.
“Inauguriamo il 3 ottobre del ’76: alla sera, quando contiamo l’incasso, non crediamo ai nostri occhi, tre milioni!”
Chi è stato ragazzo in quegli anni ricorderà il menù colorato di quella gelateria che si apriva a ventaglio con cinquanta specialità dai nomi allettanti: Spaghetti House, Paciugo, Banana Split. Anche grazie a questa moderna forma di comunicazione, la gelateria “Italia 61” diventa uno dei locali più “in” di Torino, con i suoi duecento posti a sedere, compreso il dehor. Tutto procede per il verso giusto fin quando la morte improvvisa di Beppe non costringe Alfio a vendere l’attività.
“Per me era diventato pesante lavorare dodici e più ore al giorno. Così ho venduto il locale a una famiglia di esercenti che hanno mantenuto l’alto profilo della nostra creatura”.
Nel frattempo Tarateta prosegue nel suo impegno sindacale iniziato fin da ragazzo.
“C’era la necessità di regolarizzare il settore, soprattutto dopo la nascita, negli anni ’80, delle prime gelaterie artigianali, prive di licenza e messe in piedi da persone senza esperienza e capacità. Di queste, le migliori sono ancora attive. Un nome su tutti: Il Siculo, conosciuto per le sue eccezionali granite”.
Terminata l’esperienza con i locali, Alfio Tarateta si ritaglia uno spazio come insegnante alla scuola d'Arte Bianca Beccari e con un incarico nazionale nel gruppo dirigente sindacale gelatieri (di cui è stato vicepresidente nazionale per nove anni), senza dimenticare il Salone del Gusto. Inoltre è consulente di Maison Massena, un centro di formazione dell’Ascom, dove tiene corsi per giovani gelatieri, ed è nella giuria del Premio Gelato Piemonte, che ha contribuito a far nascere nel 2010; con lui in giuria c'è anche Filippo Novelli, membro della squadra italiana che ha vinto l'edizione 2012 della Coppa del Mondo della gelateria di Rimini, una manifestazione ideata e organizzata dallo stesso Tarateta, e che ha debuttato a Torino nel 2003: “Abbiamo avuto la partecipazione di 65 gelatieri provenienti dai cinque continenti. È stata come sempre un’esperienza esaltante, che ci permette di fare il punto sulla qualità del gelato fuori dai nostri confini nazionali”.
Ecco, appunto, fuori dall’Italia dove si mangia gelato buono?
“In Europa manca la cultura del gelato, pur non mancando i buoni ingredienti, come la cioccolata tedesca. La Francia nella pasticceria è avanti, mentre nella gelateria sta facendo passi avanti grazie agli scambi che abbiamo tra Lione e Rimini. Però il gelato buono nel mondo si mangia dove c’è un italiano che lo produce”.
Com’è cambiato il consumo di gelato nel nostro Paese?
“Nel '56 il consumo pro capite di gelato era di 500 grammi a persona all’anno, nel '76 era di 7 chili all’anno, oggi si parla di 12 kg annui a persona, di gelato artigianale e industriale, e il consumo tra l’artigianale (60%) e industriale (40%). Ma è molto più avanti l’artigianale. I limiti dell’industriale sono quelli classici del prodotto surgelato. Uno dei vantaggi del nostro successo è il fatto di poter inventare dei gusti nuovi e di servire un prodotto fresco”.
Secondo te è prioritario per una vera gelateria artigianale avere il laboratorio a vista?
“Certo, guai a congelare le miscele, come fanno alcune gelaterie artigianali che vanno per la maggiore. Il nostro motto è: appena fatto, pronto per voi. Per esempio, nel nostro negozio le pere – che utilizziamo per il gusto pere della nonna, con le spezie e il vino – vengono cotte giorno per giorno nel nostro negozio. Così lo zabaione: quattro chili ogni due giorni”.
Quanto si conserva il gelato?
“Settantadue ore al massimo; dopo va gettato via perché subisce una trasformazione. Nei banchi a pozzetto si conserva meglio, non subisce alterazioni di luce, non risente dell’aria. E il gelato rimane leggermente più morbido. Si vende di più nella vetrina a vista, che attira sicuramente di più i bambini, ma non è fresco come nel pozzetto”.
Il settore è in crescita, nel nostro Paese. Il gelato dà lavoro a 150 mila addetti, 32 mila fra laboratori di gelateria, pizzerie-gelaterie, bar-gelaterie e qualche pasticceria-gelaterie.
Ma quali sono le tendenze in fatto di gusti e sperimentazioni?
“Dopo un periodo di banalizzazione, di mancanza di ricerca, stiamo assistendo a un risveglio della professione, e si sta andando sempre più verso la produzione di gelati a km zero. Frutta di stagione, raccolta sul territorio di produzione. In tema con le buone pratiche ambientali”.
In fatto di tendenze invece “l’ultima novità è il gelato gastronomico”, che Tarateta invita a non chiamare salato, “il sale non si usa”. Gusti? C’è il gelato al prosciutto, alle alici, al pane, alla senape, all’olio. Viene da storcere il naso ma il Maestro invita a non avere pregiudizi: “Sono gelati molto buoni, dice, certo non vanno gustati come dessert, ma in piccole porzioni con l’aperitivo o in abbinamento con gli antipasti, ma anche il bollito”.
Ma lui, il creatore di gelati, è come quei pasticceri che non assaggiano i dolci?
“Al contrario, a me il gelato piace molto. Sono un tradizionalista, preferisco le creme in inverno, la frutta in estate. E adoro le granite”.