Nico Ivaldi incontra Carlo Molinaro
Carlo Molinaro è un poeta: definizione insufficiente per descriverlo.
Carlo Molinaro è un bravo poeta: no, non ci siamo ancora.
Carlo Molinaro è un bravo poeta che parla dell’amore: ci stiamo avvicinando.
Carlo Molinaro è un bravo poeta che parla dell’amore perché l’amore e la poesia si assomigliano: ecco, ora è proprio lui.
Perché mai la poesia e l’amore si assomiglino, ce lo spiega lo stesso Molinaro, cinquattottenne, origini vercellesi, un metro e novanta di (falsa) timidezza.
“Sono entrambi sogno inseguito, mancanza sofferta, presenza cantata. Entrambi scaturiscono da qualcosa che lentamente o all’improvviso per te è importante, mentre per gli altri può restare insignificante”.
L’amore non è forse già poesia?
“Certo, basta solo che al poeta innamorato venga l’ispirazione di scriverla, e questo succede quando succede, non lo si può decidere. Il desiderio cerca appagamento, e l’appagamento, se arriva, si ritrasforma in desiderio, e questa è la vita: non c’è mai garanzia. La poesia cerca, anche, di strappare l’amore alle grinfie dell’oblio, di prolungarlo se non di eternarlo. O di generarlo quando non c’è. O di scoprirlo, farlo uscire quando è nascosto. L’amore è presente nelle mie poesie perché è presente nella mia esistenza. Scrivo poesie d’amore per celebrare una bellezza, per seguire un desiderio, per soffrire un rifiuto, per gioire un abbraccio”.
Di poesie (non solo d’amore) Molinaro ne ha scritte un’infinità: il suo primo libro è del 1981, ma la summa del suo lavoro quarantennale è racchiusa in un volumone intitolato La parola rinvenuta, che ne contiene circa cinquecento. Mentre esce in questi giorni un suo nuovo libro intitolato Rinfusi.
Che cos’è per te la poesia?
“La poesia mi ha accompagnato per tutta la vita. È l’espressione di un’esigenza, di un’ansia, ma anche di una gioia. Spesso, quando scrivo, sento altre percezioni come il passare del tempo”.
Tu lo senti il passare del tempo?
Lo sento pochissimo dentro di me. Me ne accorgo però quando mi guardo allo specchio, negli ultimi anni ho perfino evitato le foto in primo piano. I tipi come me che da giovani sono state delle mezze seghe patiscono meno il passare del tempo. Quando esco con ragazze più giovani di me, parlo con loro come se fossi un coetaneo, poi rifletto e mi sconvolge pensare che ho trent’anni anni più di loro. Notando in me una certa disarmonia, mi chiedo: ma perché questa bellezza in fiore dovrebbe interessarsi a me? Ottimisticamente mi dico che forse trova in me delle cose che non trova nei coetanei. Ma è raro...”
Hai scritto solo poesie?
No, anche un romanzo, Io sto come mi pare, che non considero la mia opera migliore, anche se è l’unico da cui ho ricavato qualcosa come cinquecento euro. Invece dalla poesia non ho mai ricavato nulla, è già tanto che non ci abbia rimesso”.
Le tue poesie d’amore sono sempre autobiografiche?
“Ho sempre avuto storie d’amore, e dopo i quarant’anni anche molti innamoramenti per donne molto più giovani di me. Ho scoperto tardi l’amore. Da ragazzo ero un imbranatissimo, il primo rapporto l’ho avuto a ventun anni. Sfuggivo le occasioni, anche se pensavo di essere respinto. Per molti anni ho avuto una mancanza di autostima, poi un periodo alcolico molto lungo, anche se in quegli anni mi sono laureato, ho trovato lavoro, ho messo al mondo due figli. E quando il rapporto con mia moglie è finito, ho recuperato in quel periodo quello che altri hanno fatto a vent’anni, e quindi c’è stata un po’ di sfasatura, da questo punto di vista”.
Carlo Molinaro non è il classico poeta triste che affoga le amarezze della vita svuotando bicchierini di cognac o impigrendosi su una poltrona.
“Vivo da solo e i social network hanno migliorato le mie serate. Quindi non è vero che facebook t’inchioda in casa, anzi ti fa uscire per andare a vedere o sentire i tuoi amici che magari suonano o leggono poesie. Se uno è incline a stare tutto il giorno in casa davanti al computer o davanti alla tivu ci sarebbe stato comunque”.
I video di Molinaro sono ormai leggendari, come One man telenovela, su YouTube, settanta puntate di una storia minimale, realizzata con mezzi artigianali, spezzoni di film, inquadrature di Torino, oggetti presi da casa. Ci sono puntate che sono tutte un monologo, altre con un montaggio articolato.
Un tempo non lontano Molinaro lavorava “seriamente”: è stato redattore editoriale per ventisette anni nella storica Utet in corso Raffaello (“oggi lì c’è un loft...” commenta amaramente), poi “incentinvato a dimettersi” nel 2003. Da allora svolge lavori redazionali, rivede testi, realizza foto-poesie e tiene laboratori di poesia. Per il dispiacere di chi scrive questa intervista, Molinaro ha smesso di scrivere lettere ai giornali.
“Era diventata una mania ma anche un’esigenza, quella di scrivere ai quotidiani. Era un momento in cui mi sentivo abbastanza compresso a livello personale. Ne scrivevo davvero tante. Un anno ho scritto settanta lettere pubblicate su La Stampa, Repubblica e il Manifesto. La mania ce l’avevo già da ragazzino, scrivevo alla Sesia, il settimanale storico di Vercelli. Diciamo che c’era anche un po’ di mitomania”.
Cosa scrivevi in quelle lettere?
“Fatti che mi colpivano, soprattutto temi di costume, era un modo per raccontare Torino. Per esempio, quando abitavo a San Salvario, sotto casa mia c’era una piazzetta di cui nessuno conosceva il nome. Lo segnalai a Specchio dei Tempi e qualche tempo dopo trovai il nome Aiuola Donatello. Noi residenti quel nome lo conoscevamo, ma non c’era scritto da nessuna parte. Un po’ come piazza Benefica e piazza Barcellona: se venisse un forestiero e cercasse le piazze non le troverebbe, anche se ci sono sui libri di toponomastica”.
Sei sempre stato un… grafomane?
(Ride). “Diciamo che ho sempre avuto corrispondenze epistolari con le persone. Scrivevo perché ero timido in modo morboso. Per me approcciare le persone è sempre stata una fatica. Molti miei amori sono cresciuti per via epistolare e continuati di persona. Ancora anni fa mi ero scritto con una ragazza di Vicenza allora giovanissima; poi non ci eravamo scritti più. Dopo dieci anni lei mi ha riscritto, dicendomi che nel frattempo aveva seguito le cose che facevo. Allora ci siamo visti e lei mi ha detto: quando ci vedremo faremo l’amore, e così è stato. È durata un paio di anni. Purtroppo oggi, con l’avvento di internet, la lettera è andata in disuso. Pensa che ho trenta scatoloni di lettere che ho ricevuto, dalle elementari a oggi. Dal ‘68 la collezione è completa”.
Trenta scatoloni? Ti ci va un magazzino…
Infatti sono in soffitta nella casa della mia ex moglie, spero che non me le bruci. Non saprei proprio dove metterle a casa mia”.
Abiti a Torino da quarant’anni, ma da quello che scrivi si direbbe che tu ci sia sempre vissuto..
“Sono venuto in città per studiare. All’inizio non è che mi piacesse tantissimo, era grigia, un’aria da caserma, poi non legavo molto con gli ambienti torinesi. Conoscevo gente ma nessun torinese, solo gente dal sud o proveniente da altre città del Piemonte. Poi la città è migliorata e anche il mio rapporto con i torinesi. Oggi sono molto affezionato a questa città e il pensiero di tornare a Vercelli mi angoscia, per me sarebbe una morte civile. E poi cosa farei? È la vita di Vercelli che è pesante, non c’è quasi nulla da fare, solo un piccolo circolo, un locale che fa musica e poesia. Insomma, non sarei così felice di ritornare in provincia...”