IL POETA SULL'ALBERO
Pietro Tartamella e la sua Cascina Macondo
intervista di Nico Ivaldi
“C’è un poeta su un albero”: scriveva “La Stampa” il 10 dicembre 1973. “In Piazza Carlo Felice il giovane voleva dormire su un’amaca e raccogliere fondi per una rivista letteraria” continua la cronaca. “Alla fine è stato convinto a scendere. Erano le 2,30. Lo hanno accompagnato in Questura e identificato per Pietro Tartamella, 25 anni, Via Madama Cristina 6, due volte laureato. È stato visitato dalla guardia medica e giudicato sano di mente”.
Da quella gelida notte torinese sono trascorsi molti anni, ma Pietro Tartamella ha conservato il coraggio delle scelte difficili seppur “creative”.
Se così non fosse, non si spiegherebbe, per esempio, la magica invenzione di Cascina Macondo, un esperimento originale e forse unico dove uomini, donne, bambini, anziani, stranieri, s’incontrano in un clima di amicizia, studiano, imparano, ricercano: dalla lettura creativa ad alta voce, alla dizione, alla danza, al teatro, alla scrittura creativa, alla manipolazione dell’argilla, alla musica.
Tutto questo avviene in un vecchio cascinale nella placida campagna di Riva presso Chieri. Da quasi trent’anni. Ma prima, Pietro Tartamella, classe 1948, da Camporeale (Palermo), uomo dalle doti affabulatorie non comuni, era stato tante altre cose.
“La passione per la lettura e per i racconti di storie nasce da bambino. Mia madre e mio fratello erano dei bravi affabulatori. Soprattutto mio fratello Giuseppe, che mi raccontava sempre i film che andava a vedere con gli amici. Era un narratore così bravo che ancora adesso non so se quei film li ho visti per davvero o se è lui che me li ha raccontati. Questo mi ha fatto capire la potenza della parola. Da lì è nato il piacere di raccontare, di scrivere e di usare la voce per creare i racconti”.
Come si lavora sulla voce?
“Quando sentivo una voce che mi colpiva, mi allenavo a tentare di riprodurne le intonazioni. Una che adoravo era quella del doppiatore di Perry Mason. Lo studio ha senz’altro modificato la mia voce; infatti non ricordo più com’era prima!”
Arrivato a Torino nel ‘70, dopo un’infanzia trascorsa a Ventimiglia, Pietro Tartamella frequenta la facoltà di Lettere e Filosofia, ma per protesta contro il mondo accademico e “la concezione utilitaristica che la nostra società ha della cultura” rinuncia deliberatamente al conseguimento della laurea a soli quattro esami dal suo raggiungimento. Fonda una rivista di poesia e letteratura, “La Tenda”. Per mantenersi fa mille lavori, durati una stagione, uno o due anni: manovale, cameriere, sceneggiatore di fumetti, correttore di bozze, edicolante, traduttore, aiutante restauratore di affreschi.
“Ho fatto anche politica attiva, con la Sinistra Indipendente, quando avevo l’edicola a Torino, in via Vanchiglia. Sono stato eletto consigliere in Circoscrizione e poi sono stato candidato in Parlamento con i radicali, ma lì è andata male. Proprio nel mio quartiere realizzavo e distribuivo gratuitamente in diecimila copie un giornale molto letto: ma ai miei colleghi consiglieri non piaceva che avessi tutta questa visibilità, così mi boicottarono. Questa e altre circostanze per me negative furono decisive nell’allontanarmi definitivamente dalla politica”.
Sempre attento al sociale, Tartamella dà vita all’“Associazione per la riappropriazione della sovranità del cittadino”, e attua alcune clamorose proteste: una è lo sciopero della parola contro il fisco, centoventidue giorni nei quali comunicava gesti o con biglietti scritti con la macchina per scrivere. L’altra è lo sciopero della vista: ci vuoi parlare di quest’ultima, che ebbe una vasta eco in tutta Italia?
“Rimasi quaranta giorni con gli occhi bendati per protestare contro il rapimento del piccolo Marco Fiora. Giravo sempre con qualcuno che mi accompagnasse. Fui anche ospite del Maurizio Costanzo Show. Stare quaranta giorni con gli occhi bendati t’insegna che la stragrande maggioranza delle paure che ci assalgono sono immaginarie. Infatti prima di lasciarmi andare al braccio del mio accompagnatore, nella mia testa vedevo davanti a me ostacoli di ogni tipo, pali, buche, ecc. Sono ostacoli che crei nella tua mente invece di lasciarli al loro posto. Eppoi diventa importante l’ascolto delle voci. Con gli occhi bendati, sentire le voci ti fa scoprire un altro mondo, tante sfumature e sottigliezze che non noteresti mai. In quel periodo mi sono accadute cose straordinarie, che racconterò prima o poi in un libro. Nel frattempo avevo cominciato a lavorare come artista di strada. Facevo le performance del poeta blues e del poeta amanuense nelle piazze, nei mercati, nelle fiere”.
Cosa facevi esattamente?
“Scrivevo poesie estemporanee che la gente mi commissionava con offerta libera. Avevo un tavolino, una sedia e una seggiolina per il mio o la mia ospite. E poi un mangianastri con cassette di musica blues. La gente sceglieva il tema del componimento e io inventavo la poesia, battendola a macchina a tempo di blues. Era un periodo per me molto ispirato. Per il personaggio del poeta amanuense mi ero fatto fare un abito medievale, lavoravo soprattutto nelle feste medievali con una scrivania in noce, un calamaio, una piuma d’oca, alla luce della candela”.
Com’è nata l’idea di creare Cascina Macondo?
“Erano tanti anni che mia moglie Anna, bravissima ceramista, voleva trasferirsi in campagna. Dopo la nausea della politica anche in me è cominciata a farsi strada l’idea di mollare il rumore, l’insensatezza della metropoli. Anni prima mi ero imbattutto in Cent’anni di Solitudine, il capolavoro di Garcia Marquez. È destino di chi legge incontrare almeno un libro che diventa davvero importante per la tua vita. Per me è stato quello. Un libro che mi ha aperto delle porte. Nel ‘93 fondiamo, con altri artisiti, l’associazione Cascina Macondo, un laboratorio di ceramica, poesia e musica, dove si impara a parlare in pubblico ed a trasformare il suono della voce in immagini. Non solo: Cascina Macondo ha proposto negli anni percorsi didattici riabilitativi anche per i carcerati e i disabili”.
Nel '94, dopo aver lasciato l’edicola, Tartamella viaggia in camper per l’Italia con un grande tepee, la tipica casa a forma di cono degli indiani d’America, ospitando gruppi di bambini e di adulti a cui Il “Raccontastorie della tenda indiana” narra le leggende e le storie della tradizione popolare indiana.
“Il tepee era un luogo ideale e raccolto per raccontare. L’avevo fatta costruire da un amico con un telo leggero di lino, era di 6 metri di diametro, poteva ospitare anche 50 bambini. Ci volevano tre ore per montarla e quasi altrettante per smontarla. La tenda era arredata con manufatti realizzati da mia moglie, e con altri oggetti che ricordavano il mondo indiano. Regalavamo ai bambini copricapi indiani in cartoncino con le piume di carta colorata. Terminati gli spettacoli, passavamo la notte a confezionare i copricapi per il giorno dopo”.
Come si svolgeva il vostro spettacolo?
“Lo spettacolo durava tre quarti d’ora, in una giornata facevamo anche 3-4 repliche. Finita la storia, regalavamo una pallina d’argilla con un buco in mezzo, che, spiegavo ai bambini, ha il potere di ascoltare tutte le parole che sente e di restituirle ai bambini che sanno davvero ascoltare con attenzione. Era una cosa che li colpiva. L’atmosfera della tenda era davvero magica. Credo che in quel periodo abbiamo fatto della grande cultura. È stata un’importante occasione per dare informazioni positive sulla vita degli indiani, in modo che il concetto di selvaggio fosse definitivamente rimosso”.
Perché avete smesso?
“Con il tempo il lavoro diventava sempre più faticoso. Ci capitava di essere chiamati per fare spettacoli anche per un migliaio di bambini. Ciò significava dover fare moltissime repliche. Allora ci è venuta l’idea di fare delle giornate per i bambini qui a Cascina Macondo. Inizialmente lo facevamo per i bambini delle scuole, attraverso colleghe insegnanti di mia moglie. Poi si è sparsa la voce e allora abbiamo organizzato giornate più strutturate, per intrattenere i bambini. L’iniziativa ha avuto molto successo. E quindi ancora oggi accogliamo le scuole qui in percorsi didattici”.
Cos’è oggi per te Cascina Macondo?
“Adesso io mi sento come il vecchio Melquiades, protagonista del libro di Garcia Marquez: un vecchio che esperimenta, che si appassiona delle cose più piccole: ecco in lui io mi ci specchio”.
Dunque è sempre il luogo della scoperta e della magia?
“Lo è stato e lo è ancora: il luogo della lettura, della creatività, dell’immaginazione. Quello che sta cambiando è che le cose da fare sono diventate tante, così come le difficoltà della gestione, le procedure burocratiche e i mezzi economici sempre più scarsi. Però questo è ancora un posto dove senti che qualcosa può accadere, come quando leggiamo i Racconti d’Inverno davanti al camino.”
Rimpiangi la vita dell’artista di strada?
“Rimpiango quegli anni soprattutto perchè esisteva la solidarietà tra gli artisti. Quando c’incontravamo avevamo la sensazione di essere speciali perché avevamo fatto una scelta rivoluzionaria, con fatica, senza sicurezza che nel cappello ci fosse qualcosa da mangiare alla sera. C’era una consapevolezza artistica e politica. Alla sera si andava a bere una birra ancora con la voglia di fare musica. Si andava avanti tutta la notte per il piacere d’improvvisare musica al momento, tante volte con strumenti improvvisati, come i cucchiai. Poi, quando i Comuni, le Pro Loco hanno cominciato a invitarci e a pagarci col cachet, pian piano quell’atmosfera si è perduta perché non c’era più la condivisione della cose”.
Ecco allora l’utilità di Cascina Macondo…
“Un luogo franco per te, attore famoso e ben pagato, che ti riservi qui da noi un angolino dove vieni a fare musica perché ti piace fare musica senza essere pagato. Anche questo vorrebbe essere oggi Cascina Macondo: un’isola dove ti spogli della tua professionalità e vieni a condividere con altri il piacere di fare arte. Ecco perché abbiamo creato Il ‘Ritorno di Melquiades’, che si tiene ogni anno a luglio”.
Di cosa si tratta?
“È uno spazio franco, riservato ad amici vecchi e nuovi (attori, musicisti, artisti di strada, danzatori, performers) che si rivedono una volta all'anno per una notte intera, spesso approfittando dell'occasione per sperimentare spettacoli nuovi; artisti che abbandonano il loro ruolo di professionisti per ritrovarsi e riprovare il piacere semplice del dilettantismo (fare le cose per diletto), artisti che sostengono con la loro presenza i progetti culturali di Cascina Macondo”.
Cascina Macondo promuove tutti gli anni un importante Concorso internazionale di poesia haiku in lingua italiana: (l’haiku è quel componimento poetico formato solo da tre versi): com’è nata questa passione?
“Tanti anni fa una persona mi aveva spiegato cos’erano gli haiku. Mi dicevo: cosa ci vuole a scrivere tre righe, è una cosa troppo banale. E all’inizio avevo snobbato questa fantastica forma d’arte. Poi ho scoperto che dietro quell’apparente banalità c’era un grande lavoro. E così mi sono appassionato agli haiku, li ho studiati, approfonditi”.
Qual è il fascino dell’haiku?
“L’essenzialità. Cimentarsi con gli haiku significa osservare il mondo con occhio attento. Costringe a liberarsi delle sovrastrutture, delle parole inutili e superflue, di tutti i concetti che contemporaneamente si affollano attorno ad un evento, ad una esperienza, ad una sensazione. Ci spinge a guardare e soprattutto a cogliere l'essenza di un accadimento di cui siamo testimoni, la sostanza di una esperienza, il centro di una emozione”.
Chissà se Pietro Tartamella ha mai provato a scrivere un haiku che racchiuda il senso e la missione sociale della sua vita di artista con la A maiuscola?
Se così non fosse, lo invitiamo cordialmente a farlo.