La "Baretti Opera House" sempre al completo per il ciclo verdiano e le maratone mozartiane
di Marina Rota
Scroscia la pioggia in un primo pomeriggio che pare d’autunno, anziché di incipiente primavera.
Sono le 15,20 e fra dieci minuti al Cine-Teatro Baretti verrà proiettato il Dvd del Trovatore di Verdi, nell’edizione del Metropolitan con Luciano Pavarotti e la direzione di James Levine. Si tratta del diciottesimo appuntamento del ciclo intitolato Viva Verdi, Giuseppe!, opera omnia verdiana in ordine cronologico, con il quale il Baretti sta rendendo omaggio, in occasione del 150°, a Verdi compositore ma anche a Giuseppe, uomo di campagna, che, spinto oltre ai confini delle sue umili origini dalla passione e dal talento musicale, seppe restare sempre estraneo alla genìa dei Cortigiani, vil razza dannata esecrata da Rigoletto.
Nel foyer del teatro la segretaria artistica Valentina cerca di convincere un manipolo di ritardatari che la sala è al completo. È, come si usa dire, garbata ma inflessibile. Ragioni di spazio, e anche di sicurezza, non si stanca di spiegare.
Ma non si danno per vinte, le tre signore âgée, in tenuta e trucco da sera, poi raggiunte da un elegante coetaneo che sbuca improvvisamente dalle tende fra le quali, occhiuto, controllava la situazione in platea.
E che scrolla sconsolato il capo: nemmeno una poltrona libera.
Ma, insistono le signore, non possono forse assistere allo spettacolo in piedi, o fra le tende? Non è possibile, conferma severo Alberto, direttore di sala. Ma le signore rilanciano: e se restassero qui nel foyer nel caso in cui qualcuno dovesse alzarsi per il mal di schiena? L’impressione, confermata dagli addetti ai lavori, è che sarebbero ben liete di accogliere con una smorfia di falso sgomento anche malori ben più gravi di un mal di schiena, pur di conquistarsi uno dei 112 posti in platea.
Questo non è il Regio, e i posti non si possono prenotare; il biglietto occorre farlo qui al costo di 2 euro o alla cifra agevolata di 1 euro per gli under 14 e gli over 60, categoria quest’ultima, che, complice l’ora proibitiva per chi lavora, è rappresentata in schiacciante maggioranza. Dalla cabina di regìa osservo in sala le teste bianche che, all’entrata del conferenziere, si abbandonano all’unisono sullo schienale con un sospiro quasi udibile,un sospiro che parla di sollievo, e di ripicca su chi se ne è dovuto andare.
Corrado Rollin, curatore del progetto,presenta con fare accattivante le prime scene di Senso di Visconti. Ma che cosa c’entra Senso col Trovatore? Ecco la risposta: le scene iniziali di Senso, film ricordato soprattutto per l’infelice passione della contessa Serpieri/Alida Valli per l’ufficiale nemico, sono ambientate alla Fenice di una Venezia ancora austriaca , in cui, quella sera, si sta rappresentando Il trovatore. E sarà proprio un prorompente Di quella pira l’orrendo foco, a cui il coro risponde All’armi! All’armi!, ad incendiare gli animi degli spettatori, facendo scoccare la scintilla del moto irredentista alla vigilia della battaglia di Custoza.
La scena iniziale di questo film illustra magnificamente ciò che ha rappresentato il melodramma verdiano per l’Italia: le note di Verdi, che secondo Rossini “non toglieva mai l’elmetto”, sono state le pallottole del nostro Risorgimento.
Nella sala del Baretti, un silenzio religioso. Neppure quelle tossettine stizzose che ai concerti coprono puntualmente i pianissimo.
Come sempre, il Baretti ha fatto centro: eludendo le conferenze frontali (quelle che facevano gridare a Moretti nel suo primo film “No! Il dibattito no!”), spiazza il pubblico rispondendo a curiosità con altre curiosità, facendolo uscire di casa anche sotto la pioggia.
Convinti come sono che l’opera lirica sia una statua da ammirare “da sopra, da sotto, da ogni lato e in ogni dettaglio”, gli ideatori del ciclo hanno invitato 28 amici a parlare ognuno di un aspetto delle opere in programma- che non è, quasi mai, quello musicale.
Così, mentre Bruno Gambarotta, con la sua abituale verve, disquisisce sulla lealtà di Attila e sulla nascita di Venezia, Pietro Crivellaro del Teatro Stabile parla della figura del Don Carlo in Schiller e in Alfieri; Piero Robba, responsabile dell’archivio del Regio, rievoca l’edizione dei Vespri Siciliani che inaugurarono il rinato Teatro Regio nel 1973 con la regia di Maria Callas e Giuseppe Di Stefano; il giornalista Roberto Carretta, invitato a commentare La forza del destino, -opera considerata menagramo per aver seminato decine di malori, infortuni e decessi sulla sua strada-, intrattiene sull’origine delle superstizioni e delle leggende metropolitane.
Risultato: il tutto esaurito, anche per le opere giovanili di Verdi, alcune delle quali rarissime e reperite dal Baretti solo grazie a prestiti di teatri lirici: come Oberto, Conte di San Bonifacio, Un giorno di Regno o Alzira, introvabile e trasmessa in versione solo audio.
Ma da chi è composto questo pubblico? In gran parte, si tratta degli ‘orfani’ della gloriosa stagione parallela del Piccolo Regio, ciclo di conferenze proseguito per vent’anni (con una presenza media di 150 persone), nell’intento di fondere in un sol corpo due tipi di pubblico da sempre distinti, come quello letterario e quello musicale; e interrotto dai tagli alla cultura due anni fa.
Molti sono melomani dall’orecchio fino, che non si perdono una registrazione, che disquisiscono sulla qualità delle varie edizioni di un’opera, che prendono il treno per vedere una messa in scena. E parlano di soprani e di settime diminuite non solo con competenza, ma anche con un accanimento, una passione paragonabili solo a quelli dei tifosi di un derby Toro/Juve.
Alcuni, invece, sono 'portati': quelli che una sera hanno accettato di accompagnare l’amico appassionato d’opera e poi ci han preso gusto, con l'entusiasmo dei neofiti.
Come quella signora che, ascoltate dal vivo alcune arie del famoso castrato Farinelli, si avvicinò al cantante con espressione di compatimento, chiedendogli “Scusi, ma lei è stato operato da piccolo o da grande?” “A dodici anni”-rispose l'interessato, cercando di restar serio; “Uh, poverino!”lo commiserò la curiosa.
Un folto pubblico “fidelizzato”, isnomma; lo stesso che col freddo e con la neve, ha seguito la kermesse di 36 ore consecutive “Mozart Nacht und Tag”: circa 3mila spettatori scaldati dai 110 litri di vin brulè offerto dal teatro Baretti. E dai litigi che rasentavano le risse quando, nelle trasferte da un concerto mozartiano all’altro, il pubblico che arrivava dalla Chiesa dei SS. Pietro e Paolo non riusciva ad entrare al Baretti, i cui posti erano già occupati da altri melomani previdenti.
Per la kermesse mozartiana, tanti pensionati, come oggi, al pomeriggio; molte coppie sottratte al cinema di sera; e di notte, verso le 4 o le 5 , gruppi di ragazzi reduci della movida, alcuni dei quali, sorpresa, disquisivano con competenza sulla coloritura del contralto di Cosi fan tutte, rispetto a quella della Fassbaender che già conoscevano.
Un’altra sfida giocata un po’ per caso e vinta dal Baretti? La serata restata memorabile della “Tampa lirica” il 18 febbraio, in cui, ripercorrendo un’usanza tipica di tante osterie del nord, i partecipanti, sostenuti da un “buffet di conforto”, si sono esibiti in note arie d’opera accompagnati da un pianista e incoraggiati da cantanti professionisti.
Ma che cosa bollirà, adesso, nella pentola di Corrado Rollin e di quel caleidoscopico, geniale Davide Livermore, cantante, attore, sceneggiatore, regista (anche dei recenti Vespri siciliani al Regio) che del Baretti è direttore artistico?
Italia in corso d’opera, una finta trasmissione anni ’70 attualmente in via di montaggio alla TV svizzera, nella quale, anziché parlare dei Beatles, si parlerà di melodramma, sull’onda del successo ottenuto, sempre alla TV svizzera, dallo spettacolo demenziale Livermore sciò, vincitore del premio Montreux come migliore trasmissione musicale del 1998.
Il fil rouge di Italia in corso d’opera sarà Corrado Rollin nelle vesti di un dotto musicologo in papillon alla Philippe Daverio, dileggiato da spettatori irrispettosi che lo sbeffeggiano, o a volte, ascoltandolo, si abbandonano a solenni dormite.
Questa trasmissione, composta da un’ora di sketches (Livermore travestito da Francesco Maria Piave, Rollin nelle vesti di teschio col tenore Alfonso Antoniozzi che impersona Amleto; D’Azeglio e Mazzini come “fratelli Bandiera”, ecc.) verrà distribuito in DVD con La Stampa di settembre. La prima sarà proiettata al Regio e poi sarà la volta del Baretti, che desidererebbe per l’occasione un piccolo red carpet in San Salvario, per inaugurare quella che sarà la nuova stagione, la “Baretti Opera House”: acronimo, BOH.
Non male, per un teatro che era un magazzino, che conta solo due dipendenti, e si propone non solo di divulgare cultura abbattendo i muri ancora troppo alti che la dividono dalla 'gente' e di lanciare il concetto di movida operistica “perché Mozart è una figata”, ma anche di riqualificare San Salvario, quartiere del quale si parla soltanto per il rumore, lo spaccio, la prostituzione e le arroventate convivenze etniche. Perché il volontariato di qualità – cantanti, interpreti della scena, musicisti, critici e giornalisti- per il Baretti sarà vitale, ma la maggior soddisfazione per i curatori fu quella di veder entrare al “Mozart Nacht und Tag”, verso le 11 del mattino, una signora con le sporte della spesa che, arrivata dal vicino mercato di Piazza Madama Cristina, evidentemente metteva piede in teatro per la prima volta in vita sua. E che timidamente chiese a Rollin: “Ca scusa, l’è si ca ij'è la musica?” “Ca ven-a, ca ven-a, madama; soma si për l'on!”.
2011