Mauro Vallinotto, quarant'anni di fotografia militante
intervista di Nico Ivaldi
Com’è una “bella foto”?
Sarà pure banale chiederlo ad uno dei più bravi e apprezzati fotografi italiani come Mauro Vallinotto (torinese, classe 1946, autore di oltre 150 copertine sui principali settimanali italiani e di réportages in ogni parte del mondo) ma chi scrive non ha resistito alla tentazione.
“Bertrand Russell diceva che ci sono tre tipi di fotografie: quelle belle, quelle brutte e quelle artistiche, che sono le peggiori fra tutte.”
E tu che cosa ne pensi?
“Che una bella foto è quella che ti arriva dritta nella pancia. È una foto di cui senti l’odore. Quello che Camilleri chiama “lo sciauro delle donne”, esiste anche per le foto. Il primo esempio che mi viene in mente? Una foto di Lhasa, capitale del Tibet, vista dalle colline circostanti con la silhouette di un ragazzo che cammina a capo chino. Una foto struggente”.
Curiosità appagata.
Adesso possiamo cominciare la vera intervista e fare un salto nel tempo e atterrare alla fine degli anni ’60. Torino, le prime lotte operaie, l’autunno caldo, l’immigrazione dal sud, l’emarginazione sociale. Vallinotto, studente non proprio convinto al Politecnico, durante un uscita con altri studenti per un rilievo alla Palazzina di Stupinigi, s’imbatte in un accampamento di zingari, con tanto di accampamento con cavalli. Non resiste alla tentazione e, con la vecchia Kodak del padre, realizza il suo primo réportage. E poi?
“Contro il volere dei miei, lasciai il Politecnico e lavorai per due anni come disegnatore tecnico con l’unico scopo di comprarmi l’attrezzatura. M’interessavo di fotografia sociale. Il sabato e la domenica andavo a fotografare gli immigrati meridionali nelle loro soffitte del centro e i malati di mente nei manicomi. Collaboravo con l’Associazione per la lotta contro le malattie mentali, che si batteva insieme a Basaglia per democratizzare gli ospedali psichiatrici”.
Come facevi a fotografare i pazienti?
“Mi aggregavo agli studenti di medicina, infilavo il camice bianco e scattavo attraverso un bottone aperto sul davanti. Erano autentici scatti rubati, lo confesso, ma denunciavano una tristissima realtà sociale”.
Come sei arrivato all’”Espresso”, all’inizio del 1970?
“Era il mio sogno, lavorare per quel prestigioso settimanale, all’epoca formato lenzuolo. Successe che la grande Camilla Cederna, giunta a Torino per realizzare un servizio sull’Associazione per la lotta contro le malattie mentali, non si fosse portata dietro il fotografo, rimasto addormentato a Milano, e che fosse rimasta colpita dai miei scatti, che qualcuno dell’Associazione aveva provveduto a mostrarle. Due giorni dopo venivo convocato nella redazione di Roma”.
Subito assunto?
“Non ancora, ma era questione di un paio di mesi. Quando ritornai dalle vacanze, mi aspettava un telegramma del giornale, che mi commissionava un servizio sui preti di campagna. Mi diedero due giorni di tempo per realizzarlo. Così partii per le Langhe a bordo della mia 500. Una settimana dopo, il giornale usciva con la mia foto sulla copertina a colori e diventavo corrispondente da Torino come foto-giornalista.”
Quali sono stati i tuoi scoop nei primi anni Settanta?
“Uno dei servizi più caldi l’ho realizzato nei campi paramilitari neofascisti di Ordine Nero in Val di Susa. Minacciato, fui costretto a vivere in clandestinità per un paio di mesi. Ma uno dei colpi di cui vado più orgoglioso fu quello della clinica Villa Azzurra a Grugliasco, nel luglio del ’70. Grazie al mio réportage (e al pezzo di Gabriele Invernizzi) quel lager per bambini dai quattro ai dodici anni, tutti legati mani e piedi ai letti, venne chiuso e i suoi responsabili finirono in carcere. Al processo, alla domanda “Perché tenevate legati i bambini?” un infermiere ebbe il coraggio di rispondere: “Perché strappavano i Topolini” (inteso come giornalini). Sono stato molto fortunato ad aver fatto il vero giornalismo d’inchiesta”.
Pur giurando amore eterno all’Espresso, Vallinotto vi rimane fino alla metà degli anni Ottanta. Passa a Panorama dove resta fino al 1988. Poi lavora per Famiglia Cristina, ma quando arriva la stagione dei magazine (il primo fu Sette del Corriere) lui viene arruolato dal Venerdì di Repubblica, dove rimane undici anni.
“È stato il periodo più bello professionalmente perché disponevo di una libertà enorme”.
Esisteva già la trasmissione delle foto?
“No, i rullini venivano ancora spediti ai giornali. Era un lavoro che ti logorava il fisico e il cervello, perché finché le tue foto non erano sul tavolo del direttore, potevi aver fatto le cose più straordinarie ma il tuo lavoro era stato tutto inutile”.
Sei stato anche inviato sui fronti caldi di guerra?
“Non ne ero il tipo, non mi è mai piaciuto. Per fare i reporter di guerra bisogna essere sufficientemente incoscienti. Oggi questo è un mestiere che non esiste più perché fotografi quello che vogliono gli stati maggiori. Non c’è più il fotografo di guerra. L’ultima guerra fotografata con i morti veri è stata quella dello Yom Kippur. Io ho fatto un po’ di Irlanda del Nord. Le guerre civili sono le peggiori perché non sai mai da che parte stare, infatti in Irlanda del Nord ho dovuto spacciarmi per francese, perché gli italiani, in quanto “papisti”, non erano certo ben visti dai protestanti. Sono finito tre volte in galera in Jugoslavia, accusato di aver fotografato un ponte militare...”
Non hai mai corso rischi reali?
(Ride). “Sì, in Italia, percorrendo in auto a folle velocità certe tratte, tipo Milano-Venezia, per consegnare in tempo le foto”.
Nel 2000 Mauro Vallinotto comincia un nuovo mestiere: il photoeditor. Ritorna a Torino, allo “Specchio” de “La Stampa”.
“In tre giorni ho deciso di cambiare radicalmente mestiere. Non è stato per niente facile, sai. Avevo già fatto questo lavoro al Venerdì, su richiesta diretta dello stesso Scalfari, ma era stato per un breve periodo”.
Come ti sei trovato nel nuovo lavoro?
“Diventare photoeditor è come appendere le scarpe al chiodo. Il photoeditor è un allenatore, deve stare in panchina. A me non piaceva.”
Ti consideri un buon photoeditor?
“No. Il vero photoeditor è quello che sceglie le foto e non si fa corrompere da sue considerazioni personali. A me succedeva che mi mettevo sempre dalla parte del fotografo. Mi sono imposto in tutti questi anni di non fare foto, di non sovrappormi ad altri. E in un paio di occasioni mi sono trovato a dover intervenire per realizzare la copertina di Specchio a quattro ore dalla chiusura. Succede, di sbagliare un servizio”.
Vallinotto resta sei anni a Specchio, poi a fine 2006 ritorna a Torino, richiamato da Giulio Anselmi, quando La Stampa cominciava a uscire con i fotocolor i copertina.
“Era una scommessa che ho accettato. Ho dovuto lasciare Milano, città che non ho mai amato particolarmente. Città brutta e senz'anima, però meravigliosa per lavorarci, con aeroporti che raggiungevi in 20 minuti e dove tutto funzionava molto bene”.
Ti piaceva lavorare per un quotidiano?
“No, io non ho mai amato i quotidiani. Li ho sempre guardati con spocchia, i giornalisti dei quotidiani, ma soprattutto i fotografi dei quotidiani. È un lavoro sporco, in due ore devono fare tutto. Trovarmi a gestire tutto questo è stato un trauma fin dall’inizio. Ho avuto però la fortuna di avere alle spalle un direttore come Anselmi, che di fotografia ci capiva perché aveva lavorato nei settimanali”.
Perché nei quotidiani italiani non esiste la figura del photoeditor?
“Nei grandi giornali italiani questo lavoro lo fanno gli art director, che spesso credono anche di essere dei photoeditor solo perché hanno fatto il liceo artistico. Nei quotidiani italiani siamo rimasti ai tempi delle foto Kodak degli anni '50, dove si vedevano i bambini giocare sulla neve col maglioncino rosso: per dire che ci piace l’effetto. Per fare un esempio, negli scontri di dicembre a Roma tra polizia e manifestanti, invece di pubblicare foto dei poliziotti con le armi in mano, si è scelto di pubblicare i fumogeni di colore verde, che creavano, appunto, un bell’effetto”.
Sarà forse un problema di mancanza di una cultura fotografica?
“Certo. In Italia ci sono pochi musei della fotografia, manca una scuola nazionale, tutto quello che esiste in qualsiasi altro paese occidentale. A Parigi esiste una fondazione della France Press, per me la migliore agenzia del mondo, dove si investe sulle professionalità, si creano fotografi, ma anche tecnici, antennisti. Pensa che all’estero, nei quotidiani e nei settimanali, c’è un photoeditor con un vice per ogni sezione del giornale. The Telegraph a Londra ha 29 photoeditor che coprono anche il web oltre che il quotidiano. Da noi succede che le agenzie non hanno referenti fissi nei quotidiani e spesso non sanno mai con chi rapportarsi”.
Esiste in Italia un problema di censura fotografica?
“Certo! Ed è una censura che riguarda esclusivamente gli articoli di politica”.
E all’estero c’è più libertà?
“Di sicuro negli Stati Uniti, il paese che conosco meglio”.
Dove ci sono i migliori fotografi del mondo…
“Non so se siano i più bravi. Di sicuro sono quelli più stimolati, soprattutto i fotografi dei quotidiani, dal momento che i contratti vengono rinnovati di anno in anno in base al rendimento. Di conseguenza sono anche i più pagati, e i più bravi vengono inviati nelle zone calde di guerra”.
Una volta hai scritto che il terremoto è sempre stata una grande palestra per i fotografi...
“Confermo, anche se a Haiti è stato un po’ meno facile perché potevano piantarti un coltello in gola per rubarti la macchina fotografica. Durante il terremoto del Friuli mi ero preso dello sciacallo dal Quotidiano dei Lavoratori per le foto che avevo pubblicato sull’Espresso di bambini morti sotto le macerie. Io avevo risposto dicendo che in un terremoto che fa mille morti, tu devi fare vedere i morti. I morti dei terremoti sono morti terribili perché hanno una loro trasfigurazione per via della polvere che si solleva con il crollo. Sono delle immagini terribili ma non è come in una guerra dove trionfa il grandguignol, ci sono il sangue, le braccia mozzate, penso alla Cecenia, per esempio”.
Internet danneggia la fotografia o migliora la ricerca?
“Migliora la fotografia, ma danneggia le agenzie che producono le foto. C’è questo strano concetto: se una foto è su internet, allora è gratis. Quando sono arrivato alla Stampa ho litigato con un sacco di colleghi che scaricavano le foto dalla rete e le pubblicavano. Le foto sono a disposizione di tutti a livello di fruizione, di informazione, ma non di utilizzo, di diritti, quelli non li cancella nessuno”.
Quale consiglio daresti ad un giovane che voglia fare il fotografo, oltre ad essere curioso di natura e avere tanta voglia di lavorare?
“Quello di avere un padre con un buon conto in banca. Purtroppo è così. Io so quanto m’è costato arrivare non avendo avevo nessuno alle spalle. Oggi come oggi poi è molto più difficile perché il mercato si è ristretto, quindi tu devi fare degli investimenti a medio termine. Ciò significa che per un anno o anche due bisogna rassegnarsi a lavorare senza guadagnare. Ed è una cosa che non fa per niente piacere”.
Tutte le immagini sono di Mauro Vallinotto