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Dire, fare, zappare

DIRE, FARE, ZAPPARE

dopo 34 anni di città scelgo la campagna

 

Roberta Arias


Cisterna d'AstiSi dice che le decisioni importanti siano il frutto di lunghe e cavillose meditazioni: non va sempre così. Mi sono ritrovata in quella parte di mondo di cui ignoravo l’esistenza, o meglio  credevo esistere in una realtà molto lontana da me, che non mi apparteneva per nulla. 

 Siamo sulle Colline Alfieri,  chiuse tra il fiume Tanaro e il Pianalto Astigiano, una zona felice dove confluiscono il Monferrato, il Roero e le Langhe. 

Era il Marzo 2010 quando, per una serie di circostanze, mi sono ritrovata a Cisterna d’Asti, dove non esistono né i supermercati né la stazione ferroviaria. Il primo approccio con il territorio, composto prevalentemente da vigneti e campi da arare, è stato di gentile cordialità, come quando si sale in ascensore con un estraneo: lo si osserva in silenzio, non ci si cura più di tanto di lui fin quando, arrivati a destinazione, lo si saluta abbozzando uno dei nostri migliori sorrisi. Per me è stato così: mi sono avventurata in quel dell’Astigiano con l’animo ignaro del turista, la curiosità del bambino e un pizzico di follia. La prima escursione ha avuto il sapore della gita fuori porta, in cui ci si riesce ancora a stupire di tutto: uscita dall’autostrada e imboccata la direzione Villanova, ho percorso per la prima volta l’itinerario che porta a Cisterna, lo stesso che oggi rappresenta un tragitto di quotidianità. Pensavo che la segnaletica riguardasse solo la Ztl o gli obblighi di svolta, dato a che a Torino, di quelli, ce ne sono in abbondanza. E invece nel solo raggio di due chilometri mi trovo davanti segnali di pericolo caduta alberi, frane e presenza di cinghiali: simpatico, penso, finché non realizzo, solo mesi più tardi parlando con la gente, che le frane solo all’ordine del giorno in inverno e i cinghiali fanno spesso capolino dal ciglio della Cisterna d'Astistrada, bloccando la viabilità. La luce che abbaglia, il riverbero e l’ampiezza dei luoghi colpisce subito: immagino come si viveva un tempo, percorrendo i sentieri a cavallo, guadando i fiumi, impiegando giorni e non ore per spostarsi da Asti a Torino. I cascinali, sparsi all’orizzonte a perdita d’occhio, diventano un elemento fondamentale per l’orientamento. 

Una persona che cresce in città è abituata a riferimenti stradali precisi come “Corso Vittorio Emanuele angolo Corso Vinzaglio”. Difficile equivocare. A Cisterna invece sembra che le strade non abbiano un nome: molte sono indicate secondo una logica del posto e vengono utilizzate prendendo a riferimento la casa di qualcuno “Ca' di Magna Agnesina” oppure sono battezzate secondo l’impiego locale, ad esempio “La strada che porta al lavatoio” o “Via lunga”. Il che presuppone che si mastichi di dialetto e che l’ubicazione dei luoghi sia conosciuta a tutti. La gente, poi, è come se volesse metterti alla prova, come se fiutasse che per anni sei cresciuto in mezzo a palazzi di cemento e non a chiesette, campanili e fossati. E se per caso ti perdi, ti fermi e domandi a qualcuno, la strada te la spiegano così: “Va sempre dritto, finché vedi che giri per Alba, dopo c’è una vigna e ti porti a valle, poi trovi la chiesa con la Madonnina e lì sei bele che rivà”. Inutile dire che il numero di chiese non lo si conta su due mani e che di vigne ce ne sono di tutti i colori, altezze e tipologie. Se hai la faccia un po' stupita loro gentili e premurosi lo rispiegano, aggiungendo un'infinità di dettagli che, oltre a stordirti, ti annebbiano completamente le idee. 

Cisterna d'AstiIn campagna gli oggetti, gli odori, gli animali, i sentieri, hanno ancora un senso di esistere non solo come elementi geografici, ma come riferimenti essenziali per il vivere comune. Non si può stare in campagna pensando di essere ancora della città: Ciò che fa la differenza è la mentalità, non la distanza chilometrica: qui la gente mangia quello che coltiva, lavora il terreno guardando il cielo la sera prima, regolandosi sulle lune, vive ancora secondo ritmi naturali nel vero senso della parola. Le persone non sembrano calmissime: lo sono. Il panorama, il suono delle campane, il silenzio, l’aria che sa di aria e non di smog, agiscono da antistress, il migliore che esista. Quante volte in città ho sentito commentare: “Non ce la faccio più, mi ci vorrebbe una vacanza, devo staccare, andare via”. Qui, in mezzo alle vigne e al fieno, con il gallo che canta a squarciagola, stacchi per forza. Le case hanno tutte un orticello: per comodità, non per velleità. Io, che invece di cucinare scongelavo, da quando raccolgo le verdure da terra e i frutti dagli alberi ho iniziato ad amare il cibo. E ho scoperto che le patate e le carote non nascono a rondelle, che l’insalata sporca è bella da pulire, non già lavata in sacchetti, che l’odore della terra attaccata ai pomodori mette fame solo a guardarli e che un piatto di pasta gustato alla vista delle vigne sembra più sano, più buono. Addirittura, da astemia che ero, ho imparato ad apprezzare il vino buono. 

Vivere tutto questo nella quotidianità mi ha risvegliato qualcosa di non detto ma intenso. Nell’immaginario comune si pensa che il passaggio dalla campagna alla città significhi emancipazione, crescita, svolta. Per me è stato il contrario. In questi piccoli centri, dove si conoscono tutti, ci si sente parte di un qualcosa, della comunità, mentre in città sovente si perde l’identità per acquistare quella degli altri. Ed è vero che il paese, per certi aspetti, è un po' stretto e può chiudere gli orizzonti, ma per altri li spalanca. Ho avuto modo di vedere da vicino e capire davvero che cosa sia il senso civico, il valore delle Cisterna d'Astirelazioni, il contatto diretto e non telefonico, l’importanza della scuola in un piccolo centro, il rapporto tra gli umani in scala 1:1 e non 1:100. Il senso della storia nei paesi di campagna trasuda da ogni angolo, dai muri di un castello medievale o dalle pareti di un antico pozzo: qui la memoria dei luoghi e del tempo è ancora presente e tangibile. I prodotti locali, che ogni anno sono inneggiati alle fiere, sono un reale patrimonio delle nostre colline, ma per capirlo non basta leggerlo sulle riviste, bisogna sentirlo con il cuore: è parlando con un contadino mentre trebbia il grano che veramente si coglie il concetto del cibo “bio” o dello “slow food”. Le tradizioni popolari, oltre ai festeggiamenti ai caduti e alle feste patronali, alimentano la vita delle comunità, la simbologia delle cose: quello che in città attrae perché è glamour in campagna è soppiantato dalla semplicità, dal bisogno di stare dentro di noi, nel senso delle cose e non fuori. Alcune sovrastrutture vengono meno, ci si riappropria delle nostre origini, della normalità delle stagioni, dei ritmi del nostro corpo, delle nostre esigenze, senza forzature. E anche le regole della natura che si cerca spesso di stravolgere a nostro vantaggio, nella vita di campagna suscitano rispetto, perché dimostrano di avere un preciso senso di esistere. 


Questo articolo ha ricevuto una menzione alla quarta edizione del Premio Piemonte Mese, Sezione Cultura e Ambiente

 

Foto di Roberta Arias

 

 

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Hanno collaborato a questo numero

Nico Ivaldi
Roberta Arias
Gabriella Bernardi
Marco Ceste
Michela Damasco
Emanuele Franzoso
Eliseo Manduzio
Bianca Mazzinghi
Mauro Ravarino
Sabrina Roglio
Marina Rota


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