Sono oltre duemila gli interventi effettuati dal professor Mauro Salizzoni, direttore alle Molinette del Centro Trapianti del fegato più grande d’Europa
di Marina Rota
È bravissimo ma gelido’’; “Forse è solo riservato”; “È premuroso coi malati, ma inesorabile coi parenti’; “Non sente fatica, non sa che cosa sia il burn out”; “Ha preso servizio martedì sera, e ha smontato giovedì mattina”; “È infallibile”; “È un missionario della chirurgia”; ‘‘Ha una resistenza disumana”; “Si sottopone e sottopone a turni massacranti”...
L’aneddotica sul professor Salizzoni si moltiplica, favorita anche dalla sua posizione di prestigio: perché il fatto che il Centro Trapianti di Fegato sia un fiore all’occhiello per le Molinette - e per la sanità piemontese, anzi, italiana - non è aneddotica: è un fatto incontrovertibile. Il professor Mauro Salizzoni che arriva puntualissimo, col suo abituale passo spedito, in divisa verde da sala operatoria (sostituita, prima di aprirmi la porta, dal camice bianco come “gli ha ordinato” la sua segretaria Alessandra) dirige infatti alle Molinette il Centro trapianti del fegato più grande d’Europa: una superficie di duemila metri quadri che include un day hospital, tre sale operatorie, un’area di terapia intensiva, venti letti per la degenza, sei letti per la rianimazione e altri sette per la terapia semi-intensiva. Un Centro al quale si indirizza l'ultima speranza di tanti malati; in cui, oltre al trapianto di fegato e pancreas su pazienti adulti e bambini, che rappresentano il 30% dell’intera attività, vengono eseguite la chirurgia epato-biliare pancreatica, oncologica e non, quella dell’apparato digestivo e la pediatrica complessa.
I numeri dell’eccellenza del Centro sono noti, così come le sfide apparentemente impossibili giocate e vinte dal prof. Salizzoni, ma davanti a lui, a quest’uomo di 62 anni che ha “sulle corna”, come ironizza, più di duemila trapianti (ed è ultimamente ritornato in prima pagina per il record assoluto di trapianti stabilito nella notte di Natale) è forte la tentazione di saperne di più, di curiosare dietro quel velo che pare renderlo intangibile, di individuare quel piccolo nucleo di fragilità, che deve pur esistere, ben protetto dalla sua disponibilità a rispondere, dalla sua ineccepibile cortesia.
Per cominciare: in che modo Salizzoni è diventato Salizzoni, e perché ha scelto, da ragazzo, una specialità chirurgica così complessa?.
È più probabile nascere chirurghi, che diventarlo”, esordisce il professore. “Già al quarto anno di Medicina, quando ero proprio qui alle Molinette, vidi operare il prof. Biancalana, e mi appassionai alla chirurgia pesante, che in quel periodo era quella toracica ed esofagea. Poi passai, come molti altri chirurghi in Europa, a quella epatobiliare che era nel frattempo diventata l’altra chirurgia complessa, così divenni chirurgo di fegato, pancreas e vie biliari, anche se non ho mai dimenticato di essere nato come chirurgo toracico e dell’esofago. I primi passi li ho mossi alle Molinette coi prof. Biancalana e Paletto”.
Però poi ha allargato i suoi orizzonti…
Sì, nel 1980 passai un anno a Parigi dal prof. Millard e poi, per specializzarmi ulteriormente, grazie a colleghi conosciuti proprio a Parigi, ebbi la possibilità di trascorrere sei mesi in Vietnam. Un Paese in cui era complicato arrivare e restare, dilaniato dalla guerra recentemente finita, ma in cui c’era una scuola di chirurgia epato-biliare di eccellente livello. Dalla chirurgia resettiva epatica sono poi passato alla trapiantologia, che, secondo le convinzioni dei colleghi vietnamiti, rappresentava la sua naturale conseguenza. Sono stato anche negli Stati Uniti e in Giappone, ma solo per approfondire aspetti particolari della specialità, come quelli relativi ad alcuni aspetti dell’immunosoppressione o del trapianto da donatore vivente pediatrico”.
Quali sono i tipi di patologie epatiche per cui si deve ricorrere al trapianto anziché alla terapia resettiva?
Tutte le patologie che comportano insufficienza epatica. Nella stragrande maggioranza dei casi si tratta di cirrosi virali esotossiche, anche se non mancano casi di malattie metaboliche o congenite, così come sono numerose le patologie autoummuni che determinano lesioni permanenti al fegato. Diciamo comunque che nell’80% dei casi si tratta di cirrosi post virali da epatite C”.
In che modo si sono modificati negli anni i dati di sopravvivenza?
“In modo estremamente significativo, con un costante miglioramento. Basti pensare che negli ultimi due anni risultano vivi, a 10 anni dall'intervento, il 70% dei pazienti; e il trend positivo continua ad aumentare. Il problema sta proprio nel fatto che i molti trapianti effettuati per cirrosi post epatiche da epatite C, pur perfettamente riusciti, rischiano di essere messi in pericolo dalla frequente recidiva della patologia originaria”.
Sono note le indicazioni date dagli oncologi per la prevenzione dei tumori. C’è qualche regola di vita a cui attenersi in modo specifico per prevenire le patologie al fegato, come le epatiti?
Contro l’epatite virale B ormai ci si vaccina, per cui il trapianto per questo motivo si esegue solo più su qualche paziente extracomunitario che non è stato vaccinato. Qualche indicazione per prevenire le patologie del fegato? Non bucarsi; sicurezza delle trasfusioni; evitare l’abuso di alcool. Il suo uso moderato, invece, va bene, oltre ad essere piacevole”.
Professore, che cosa le dà la forza di resistere così a lungo e con tanta concentrazione in sala operatoria? Forse la disciplina richiesta dagli sport che pratica, la corsa e il ciclismo?
Il ciclismo non lo pratico più; ma certo la corsa, della quale sono malato, tiene la mente sgombra. Correndo si pensa ad altro; ed è benefico questo tipo di fatica dopo le preoccupazioni di una giornata difficile, anche fisicamente pesante. Ciò che mi dà resistenza mentre opero è l’importanza in sé dell’atto chirurgico, la consapevolezza che si sta trasferendo un organo da una persona deceduta, che generosamente ha consentito in vita alla donazione, ad un paziente che altrimenti morirebbe. Noi siamo i testimoni di questo passaggio, in cui contano anche i minimi particolari. Anche il tempo diventa una variante secondaria: non si calcola più. Qualche volta dieci ore sembrano due, altre volte un’ora sembra non passare mai”.
I biglietti dei suoi pazienti, che tappezzano il reparto di degenza, parlano chiaro “Grazie, professore, per avermi ridato la vita”. Non si prova un vago senso di onnipotenza, di creazione, nel trapiantare un organo vitale?
Questo no; non siamo creatori, ma esecutori, che lavorano in équipe; inoltre prima e dopo di noi operano anche i rianimatori. Per noi c’è solo la consapevolezza dell’atto chirurgico. Esiste invece una nostra enorme responsabilità al momento dell’assegnazione dell’organo del donatore al ricevente. Anche se la scelta viene effettuata secondo un protocollo rigidissimo, su basi algoritmiche ormai consolidate negli anni, siamo ben consci delle sue conseguenze”.
I turni pesanti ai quali sono sottoposti gli infermieri di questo centro le hanno creato qualche problema…
Già. Ma non sono stati gli infermieri a lamentarsi. Il fatto è che esistono istituti contrattuali per cui a un certo numero di ore lavorate deve corrispondere un certo numero di ore di riposo. Forse con un numero più adeguato di infermieri sarebbe possibile garantirlo, ma nella situazione attuale di scarsità di personale, certamente non possiamo permetterci di rimandare un trapianto salvavita perché mancano 3 o 4 ore di riposo. Non è concepibile. Qui non si fanno interventi di chirurgia estetica”.
Una volta il medico aveva sempre ragione; adesso, come noto, si moltiplicano le cause di responsabilità, per cui la medicina sta diventando sempre più difensiva. Ma è vero che i medici fanno più errori?
No, si esagerava prima e si esagera adesso. Gli errori sono meno frequenti di una volta: l’atto chirurgico è eseguito non da un solo chirurgo ma da una équipe, per cui tutti vedono quanto avviene; inoltre l’atto medico singolo non esiste più. La diagnosi è frutto di controlli incrociati; viene riproposta, vidimata, discussa. Certo esiste l’errore umano, compiuto in buona fede, del quale ci si accorge troppo tardi. Una cosa tengo a precisare; una buona diagnosi non può mai prescindere dall’esame del malato, delle sue abitudini di vita, da una visita accurata con la mano sulla pancia, chiedendogli dove gli fa male. Non ci si deve accontentare degli esami: i numeri hanno un loro valore, ma vanno interpretati”.
Quali sono le qualità imprescindibili di un bravo medico?
Il rigore, il disinteresse. Questo non significa non avere diritto ad una giusta retribuzione; significa non essere vincolati dall’aspetto economico nel proporre l’atto medico. Non si deve mai pensare al proprio tornaconto; un atto medico lo si fa perché lo si deve fare. Le altre considerazioni sono secondarie”.
Avevo letto sulla Stampa di qualche estate fa una sua “cartolina”, in cui raccontava le vacanze in montagna coi suoi figli. Quanto della sua sfera privata ha dovuto sacrificare alla professione?
“Già, la montagna: un’altra mia grande passione. Ho dovuto sacrificare molto, specie quando ero in Belgio e i figli erano piccoli. O quando vivevo in Francia da solo in ospedale e ritornavo in Italia solo ogni 15 giorni. La mia fortuna è stata una moglie intelligente, che ha sopperito alle mie assenze; non mi ha mai ostacolato e non ha mai creato attriti”.
È noto che la programmazione e la politica si accapigliano da anni sul progetto Molinette. Questo ospedale ha compiuto da poco 75 anni; com’è il suo stato di salute?
“Pessimo. Basti pensare agli impianti idrici che si rompono se portati a gradazione elevata; al problema della legionella. Qui c’è l’assoluta necessità di creare una nuova struttura parallela. Le tecnologie del 2010 sono incomparabilmente diverse da quelle anche solo di vent'anni fa. In questi ambienti esistono enormi spazi inutilizzati, in cui d’altronde non si potrebbero installare apparecchiature tecnologicamente avanzate; le sale operatorie sono distribuite ovunque invece di essere concentrate in un blocco centralizzato, e ciò crea un enorme dispendio di tempi e di energie. Eppure questo brutto forziere contiene un immenso tesoro: ospita un concentrato di conoscenze che sarebbe un vero delitto disperdere. Alle Molinette, a qualunque ora del giorno e della notte, in ogni giorno dell’anno, Natale e Pasqua compresi, si è in grado di risolvere problemi di enorme complessità che tanti nuovissimi ospedali non sarebbero in grado di affrontare”.
Nel suo ultimo libro Dell’amore e del dolore delle donne, Umberto Veronesi pare attribuire alle donne una maggiore intensità vitale: più profondità nei sentimenti, più coraggio nell’affrontare il dolore. In base alla sua esperienza, concorda con lui?
Concordo decisamente. Basti pensare che 16 su 18 dei superstiti di questo reparto creato vent'anni fa sono donne; donne appassionate di questa attività, che non si sono mai arrese di fronte a mille ostacoli”.
Ma perché così poche donne chirurgo?
Me lo sono chiesto tante volte anch’io: da 25 anni cerco di formare donne chirurgo… Credo che il motivo risieda non nella fatica psicologica richiesta dalla sala operatoria, che le donne sarebbero certamente in grado di fronteggiare, ma nell’handicap obiettivo della fatica fisica. Conforta però pensare che l’80% dei nostri attuali specializzandi sono donne, alle quali viene richiesto lo stesso impegno dei maschi”.
Professore, quali sono i momenti in cui si sente davvero felice?
Sono contento quando vado a correre al Valentino, e riesco a farlo senza guai ai legamenti, e ogni volta che porto felicemente a termine un intervento che ridà la vita.”
Lei viene spesso definito come un uomo glaciale. Che sia un corollario della sua riservatezza?
Non credo di essere un freddo; ma un minimo di discrezione non fa male. In fondo sono uno di quei torinesi vecchio stampo, che non vivrebbero mai a Milano. In me c’è parecchia torinesità, e il mio è lo stile bogianen, nel senso di saper stare al proprio posto”.
Insomma, esageroma nen, come dice Carlo Fruttero?
Ecco, proprio così, ride il professor Salizzoni rimettendosi la divisa verde, esageroma nen!”
2011